A sessant’anni dal disastro del Vajont fare memoria è ancora più indispensabile. Ciò che accadde la sera del 9 ottobre 1963 è stato consegnato alla storia del nostro Paese anche grazie a una lunga vicenda giudiziaria che si è conclusa definitivamente solo nell’anno 2000, con un accordo che ha suddiviso gli oneri di risarcimento danni tra Enel, Montedison e Stato italiano, ciascuna parte al 33,3% per cento di quei 99 miliardi di lire riconosciuti ai Comuni danneggiati, dopo anni di contenziosi succeduti alla sentenza penale della Corte di Cassazione.

Uno stillicidio, che ha ridotto negli anni i quattromila aventi diritto al risarcimento a solo 69 parti civili. Di queste, poi, un numero più esiguo ha scelto di ricorrere al giudizio civile.

La tragedia annunciata

Ma torniamo alla tragedia: alle 22.39 una delle dighe più alte al mondo, un bacino artificiale di 150 milioni di metri cubi d’acqua, riversa a valle in pochi minuti un terzo del suo volume. Inevitabile la strage: 1917 i morti, di cui 487 i bambini, nelle piccole comunità montane di Erto e Casso, fino all’incontro della gola del Vajont, dove sorge la cittadina di Longarone, nel bellunese.

Sono tre gli errori tecnici commessi, secondo le perizie successive al disastro: la scelta di una valle non idonea dal punto di vista geologico e ad alto rischio sismico, l’innalzamento della quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza, e il non aver dato l’allarme quella sera, così da procedere all’evacuazione di massa.

Di fronte a quell’orgoglio dell’ingegneria italiana, il cui primo progetto risaliva al 1929 e che mirava a compensare la portata irregolare del fiume Piave e dei suoi affluenti, è ancora più traumatico reagire. Si acuisce la dicotomia tra l’innovazione, il futuro, il Paese che cresce, e i limiti imposti dalla natura, che poi reagisce in modo catastrofico. La realtà di tutte quelle vittime, scomparse letteralmente sotto ai flutti e alle macerie (molti i corpi che non saranno ritrovati) emette un grido devastante. Urge capire, trovare le responsabilità.

Erto vecchia con sullo sfondo il monte Toc e il monte Pelf. Foto di SeppDaNert, Flickr.

Grandi ambizioni in un luogo inidoneo

Il progetto ha una storia molto lunga: approvato nel 1943 in piena seconda guerra mondiale, solo nel 1957 si aprono i cantieri, in un periodo in cui l’Italia è in rapida espansione e le città del Nord richiedono crescente energia elettrica. Ed è in questo clima che la Sade – Società adriatica di elettricità – decide di ampliare la diga per farla diventare la più alta al mondo.

Ma la geologia del luogo dà altri segnali, con smottamenti che coinvolgono anche una diga vicina – ci sarà anche un morto, che non sarà ritrovato – e le indagini sono chiare: quella riserva d’acqua si trova in un’area a rischio.

A fine 1962 l’infrastruttura entra a far parte dell’Enel, quindi di proprietà statale. In quei mesi si registra un nuovo scivolamento del monte Toc e a Longarone, Erto e Casso sono evidenti nuovi segni di una imminente frana.

Segnali netti di un disastro annunciato: i 400 metri cubi di terra che si staccano dal monte Toc il 9 ottobre 1963 diventa una frana che si muove a 100 chilometri l’ora. Basta un minuto per coinvolgere l’invaso artificiale, scavalcarne le mura con due onde alte più di 250 metri. Una si riversa su Erto e Casso dove spazza via alcune frazioni, l’altra, più terribile, travolge in pieno Longarone pochi minuti dopo.

Condanne irrisorie

Il processo penale di primo grado inizia il 21 febbraio 1968 a L’Aquila, si giunge in Cassazione nel marzo 1971, che conferma la colpevolezza di Alberico Biadene, dirigente Sade, e di Francesco Sensidoni, membro della commissione di collaudo della diga del Vajont. Il primo viene condannato a cinque anni, il secondo a tre e otto mesi: entrambi beneficiano di tre anni di condono. Gli altri imputati durante le tre fasi di giudizio vengono assolti con diverse formule, giusto in tempo perché non intervenga la prescrizione.

Da questa sentenza definitiva si apre il capitolo dei risarcimenti: una questione, estremamente complessa da ricostruire in poche righe, che si chiuderà nel 2000, con continui rimpalli di responsabilità. Risponderà prima Montedison, poi anche Enel sarà richiamata all’onere di risarcimento, oltre allo Stato.  

I risarcimenti differenziali

Ciò che accadde dopo la tragedia è un caso esemplare di scandalo italiano. La giornalista de L’Unità Tina Merlin condusse un’importante inchiesta sulla pericolosità della diga, ma si scontrò da subito con opinioni eccellenti. Non da ultimo quella di Indro Montanelli, tra i sostenitori che si fosse trattato di una disgrazia naturale di cui l’uomo non era responsabile.

Di fatto, ci fu chi vide in questo disastro un’opportunità da non perdere. Incise anche la caduta del governo Leone, il quale poco dopo divenne capo del collegio degli avvocati di Sade-Enel. Grazie a un uso sapiente del codice, egli riuscì a non far riconoscere il risarcimento ai parenti di 600 morti. In base alla gravità della perdita, i superstiti si trovarono di fronte una proposta di risarcimento differenziale: un milione e mezzo per la morte dei genitori in caso di figlio minorenne, altrimenti ridotto a un milione, ottocento mila lire per i fratelli conviventi, seicento mila per quelli non conviventi. Nulla era dovuto invece per nipoti, nonni, zii scomparsi, anche se conviventi. Quasi tutti i superstiti firmarono la transazione.

La “legge Vajont”

Grazie alla legge 357 del 1964, la cosiddetta “legge Vajont“, fu possibile per ogni cittadino dei comuni disastrati in possesso di licenza commerciale, industriale, artigianale, avere un contributo del 20 per cento a fondo perduto per riavviare l’attività, e a un mutuo dell’80 per cento a tasso agevolato per quindici anni e all’esenzione dalle tasse per dieci anni.

Se il principio poteva essere giusto, a trarne vantaggio non furono le piccole attività, che invece furono autorizzate dalla legge a vendere la licenza ad altri. Questi ultimi potevano beneficiare degli stessi diritti previsti dalla norma, purché aprissero l’attività all’interno di un comprensorio che coincise però con tutto il Triveneto.

Presto comparvero intermediari che acquistarono licenze a poco, ottenendo finanziamenti pubblici per ogni licenza acquisita che durarono decenni. Nell’elenco delle attività rilevate e riattivate sono diversi i falegnami e i calzolai le cui licenze passarono in mano a chi aprì una fonderia, a produttori di tegole in cemento o a industrie di compressori.

Un memoriale sul luogo della tragedia, foto di fedus medalb, Flickr.

Si intese rilanciare l’economia delle regioni coinvolte e il bacino industriale ne beneficiò come una manna, dando il via al fenomeno del Nordest. Non mancò la corruzione, con i relativi processi, come pure la sparizione di donazioni raccolte dalla solidarietà degli italiani e di tutto il resto del mondo. I 627 milioni di lire raccolti dalla Rai solo nella prima settimana non raggiunsero alcun superstite.

Nonostante il denaro giunto alle amministrazioni, all’appello a Longarone mancano ancora 451 vittime, a Erto e Casso 158. In questi anni non si è più scavato per ritrovarle.

Vajont nella memoria

Recentemente sui media si è fatto nome del Vajont in occasione di un altro evento drammatico, l’alluvione dello scorso maggio in Romagna. Sono bastate le affermazioni confuse del giornalista Alessandro Sallusti a rendere evidente quanto per molti italiani quell’evento di sessant’anni fa sia ridotto a un ricordo vago, riconducibile a disastro naturale. Ebbene, a distanza di sei decenni il monumento rimasto in piedi a memoria degli accadimenti, e meta di visite guidate, parla ancora di più.

Perché nemmeno allora si trattò di un fatto di natura ambientale, così come per altre ragioni i tragici eventi di oggi hanno una stretta correlazione con il mutamento del clima e con una pervasiva antropizzazione. I dati dell’Ispra sul rischio di dissesto idrogeologico riportano che ben il 93,9% dei comuni italiani è a rischio frane, alluvioni o erosione costiera, le regioni più in allarme sono Emilia Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria.

VajontS con Marco Paolini, l’orazione civile in cento teatri italiani

Era il 1993 quando l’attore Marco Paolini mise in scena Il racconto del Vajont, orazione civile che contribuì a non rimuovere gli eventi specialmente per le giovani generazioni di allora. Ora per il sessantesimo dalla tragedia è in programma VajontS per una Orazione civile corale. Questa sera in cento teatri in Italia ed Europa attori e allievi di scuole di teatro, compagnie di ricerca, teatri stabili, musicisti, danzatori, maestranze spettatori si riuniranno in un’azione di teatro, fermandosi poi alle 22.39, ora in cui la montagna è franata nella diga. Vi aderisce anche il Teatro Stabile di Verona, con ingresso libero alle ore 21.

Curato da Marco Paolini, con la collaborazione di Marco Martinelli per La Fabbrica del Mondo, realizzato da Jolefilm in collaborazione con Fondazione Vajont, l’appuntamento rimarca il bisogno che si attivi, come afferma l’attore, “accanto alla Protezione Civile, una Prevenzione Civile” che agisca “in base a un principio di tutela della vita, della salute, del bene comune, di riduzione del rischio».

Il messaggio di Marco Paolini con cui racconta il messaggio di VajontS e invita la collettività a prendervi parte.

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