Si conclude nel segno della tragedia greca la 75esima edizione dell’Estate teatrale veronese, Festival organizzato dal Comune di Verona e diretto da Carlo Mangolini. Medea, produzione dell’Istituto nazionale Dramma Antico di Siracusa e diretta da Federico Tiezzi, ha stupito il 12 e il 13 settembre il pubblico del Teatro Romano con uno spettacolo in cui tutto collabora alla grandezza dell’esito.

Tiezzi: «Medea è un campo di forze contrapposte»

La Medea di Tiozzi aveva esordito lo scorso 12 maggio al Teatro greco di Siracusa, dove è andata in replica fino al 23 giugno per poi giungere il riva all’Adige per due serate. «Ho impostato la tragedia non come una rappresaglia individuale ma come uno scontro fra due diverse concezioni della forza. Uno scontro fra una società arcaica e una società post industriale. Tra Ordine e Disordine. Medea è un campo di forze, dove si scontrano due modalità della violenza», ha dichiarato il regista e drammaturgo.

Laura Marinoni è una Medea forte, folle, lucida, travolgente. Entra in scena e si muove spostando l’abito con forza e regalità, non si ferma mai, sembra un uccello che cerca una via di fuga dalla gabbia, e quando non c’è, è la sua assenza a tessere trame di violenza e grava sul palcoscenico.

Risaltano anche la Nutrice, Debora Zumiana, la prima Coreuta Francesca Ciocchetti e il doppio Coro. Giovanna Buzzi realizza dei costumi femminili giocati su colori molto netti, blu, viola, in contrasto col fondale nero e bianco. I costumi maschili, invece, sono abiti grigi, giacca e cravatta, con una testa di coccodrillo sul volto. Splendido il costume di Medea, che indossa un mantello dalle trame orientali, a ricordare la sua origine straniera, colchica e magica.

Una nota di merito va anche alle musiche, eseguite dall’orchestra e dal coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma, che regalano fermento e il presagio di una violenza che non tarderà ad arrivare.

Una scena di Medea prodotta dall’Istituto nazionale Dramma Antico di Siracusa e diretta da Federico Tiezzi.

Tra classicità e riferimenti borghesi del Novecento

La tragedia si apre su un interno borghese disegnato, una villa neoclassica in bianco e nero, con busti in marmo poggiati su colonne chiare. L’elegante scenografia disegnata da Marco Rossi fa pensare agli anni Trenta del secolo scorso, e invece è molto più lontana nel tempo, o forse, è sempre.

A contrasto del fondale bianco, uno spazio nero da cui escono i personaggi, Medea, i bambini, Creonte, Giasone. Un altrove scenico, uno spazio quasi onirico che sprigiona il potere archetipico del mito e delle sue figure. Medea, mascherata da uccello esotico, lucida e rapace. Creonte, in abito da lavoro, e il volto di un coccodrillo. E i bambini, accompagnati da un eccellente Riccardo Livermore nei panni del pedagogo, che giocano indossando maschere di agnellini bianchi, innocenti figure di questa atroce catena alimentare umana in cui a pagarla è il più debole.

Medea folle e infelice incarna la condizione umana

«Medea infelice», «Medea folle», continua a ripetere il coro come se tra queste due condizioni ci fosse un intimo e ineluttabile legame.

Batte sullo stesso tasto anche il Messaggero, interpretato con molto trasporto ed enfasi da Sandra Toffolatti, che racconta la morte tragica del Re Creonte e della figlia Glauce, futura moglie di Giasone, per mano di Medea. Medea è folle perché infelice e così è la condizione umana: «l’uomo è sempre infelice» ricorda il Messaggero, ottenendo l’applauso da un pubblico commosso.

Il coro di Medea diretta da Federico Tiezzi, foto di Maria Pia Ballarino.

Siamo a Corinto ma da qui c’è un prima e un dopo e in questo spazio geografico e temporale c’è la sintesi di tanta follia. Medea non uccide per amore. Medea uccide perché sull’altare dell’amore per Giasone ha immolato tutto il resto: ha ucciso il fratello, tradito la sua patria, ha fatto uccidere coi suoi stratagemmi magici Pelia, lo zio di Giasone. In cambio il matrimonio con Giasone. Ora però le cose sono cambiate, Medea si trova a essere madre, sola, straniera, esiliata perché ha affidato la sua intera felicità a un uomo il cui unico orientamento etico era il potere. Giasone ha infatti scelto di sposare la figlia del Re di Corinto e abbandonare Medea.

A ciò segue un dopo, e il dopo è l’apollinea Atene. Là se ne andrà e sposerà Egeo ma prima deve esse consumato l’ultimo e il più atroce dei delitti: uccidere i figli. Il sole tramonta e sul palcoscenico tinto dalle luci rosse di Gianni Pollini compare solamente il coro. Medea non c’è ma la sua assenza fisica occupa lo spazio. Da lontano le urla dei bambini, lunghe e disperate. Gli occhi vedono solo il vuoto ma i suoni di un infanticidio ormai compiuto penetrano negli spettatori attoniti.

Una tragedia fuori dal tempo e vicina a noi

Alle spalle Medea, dal carro del Sole, parla un’ultima volta a un Giasone ormai disperato. L’interpretazione di Alessandro Averone smuove il pubblico e lo trascina nella vertiginosa e infernale follia di questa storia. Medea, furente e lucida, ha scelto che la vendetta vincesse l’amore per i suoi figli, pur sapendo che così mai sarà felice. «Felice mai, felice no», urla Medea a Giasone.

Sul finale, il Coro delle donne pulisce il palazzo. Chine a terra con gli stracci tingono mura e pavimenti di rosso mentre Giasone, impotente, osserva concretizzarsi la violenza e l’orrore.

Se la villa neoclassica ci aveva trasportati attraverso il tempo, dalla Corinto ellenica agli anni Trenta fino a un sospeso “sempre”, allora si potrebbe immaginare che ci troviamo anche in un “ovunque”, perché ogni volta che il deserto dilaga, la morte vince la vita e l’uomo soffre.

©RIPRODUZIONE RISERVATA