Le regole di ingaggio della pubblica sicurezza, tra paura e buon senso

Molti agenti di polizia e dell’Arma, nella cronaca degli ultimi mesi, sono stati aggrediti o uccisi nello svolgimento del loro dovere: Trieste, Cecina, Roma. Un fenomeno che sembra diventare sempre più imponente e non solo per la tendenza bulimica (come dicevamo tempo fa) dell’informazione.

Non si intende qui parlare della morte dei due agenti a Trieste – uccisi da uno squilibrato – perché fatti troppo freschi e in fase di accertamento, né della qualità della dotazione (ci ricordiamo in molti della durata dei nuovi distintivi, freschi d’acquisto) o della loro preparazione. Il punto è che dobbiamo interrogarci sulle condizioni in cui gli agenti si trovano a dover lavorare sul territorio.

Rimane poi, sullo sfondo, la diffidenza di buona parte della cittadinanza per le forze dell’ordine che, per i fautori di un diverso ordine politico ed economico, sono (ed è una verità incontestabile) i guardiani dello status quo e, quindi, secondo loro della diffusa ingiustizia sociale. Di fatto, però, sono una necessità anche per loro, ovvero quando i bravi migranti e i bravi centri sociali si rivelano più che incompatibili su un determinato territorio. A tutto questo si aggiunge pure la diffidenza storica vissuta in alcune zone d’Italia da molte famiglie, per le quali lo Stato rimane orco e non garante dei diritti.

Tuttavia, ci sono alcune evidenze che non possono essere poste in discussione. Chi fa il poliziotto, o il carabiniere, lo fa per spirito di servizio, ed è un ragazzo esattamente come tutti gli altri. Con una differenza fondamentale, però: deve (deve, non può) agire in un contesto regolamentare che gli impedisce di svolgere il suo lavoro in condizioni di serenità e sicurezza.

Siamo spettatori di una lunga serie di agenti feriti, uccisi mentre i loro aggressori se ne vanno a spasso. Molto spesso, escono a piede libero mentre gli agenti non hanno ancora finito di scrivere il rapporto. Ed è così è per tutti, in verità: padri e madri di figli barbaramente uccisi, come dimostra la vicenda di Corigliano, rimangono mortificati nel vedere gli assassini in precoci e incomprensibili permessi premio.

Siamo di fronte a una categoria che rimane schiacciata nella schizofrenia dell’opinione pubblica, che invoca la forca per il caso Cucchi e, allo stesso tempo, maggiore durezza contro i criminali. Tra una magistratura che vive in una realtà tutta sua: libera immediatamente un finlandese che molesta sessualmente una poliziotta e che poi si masturba davanti a lei mentre è ancora fresco di pubblicazione il codice rosso contro la violenza di genere, come se le donne poliziotte fossero figlie di un dio minore; di contro, perseguita fino alla cassazione poliziotti innocenti per la verità processuale, come nel caso Uva.

Fonte Sole24ore

E, infine, la questione migranti, percepita dai più (anche se la propaganda e l’effettiva incidenza del fenomeno sarebbe da razionalizzare) come fonte di pericolo. Le nazioni di origine – statistiche alla mano – da cui importiamo soggetti malavitosi sono Romania, Albania e, per droga e reati sessuali, anche Marocco, Tunisia e Nigeria. Anche qui, non si vede come le forze di pubblica sicurezza possano arginare un fenomeno che porta, come temibile conseguenza, un semplice – ed inutile – foglio di via, magari da collezionare. Non possono ovviamente sparare; ammanettarli – o mettere le fascette – potrebbe metterli nei guai: e in tutto questo può capitare che debbano affrontare invasati col machete.

Luciana Lamorgese

Ed ecco il perno della questione: le regole di ingaggio devono essere ricondotte al principio di realtà, senza ipocrisie che garantiscano solo l’impunità. Finito l’inutile ministero Salvini, il cui unico atto in questo senso è stato scroccare belle felpe, ci si aspetterebbe dal nuovo ministro Luciana Lamorgese che dicesse qualcosa, anche non di sinistra, ma di civiltà. Perché le forze dell’ordine, come la poliziotta molestata di Reggio Emilia, non si sentano figli di un dio minore ma orgogliosamente cittadini a pieno titolo.