Grandi donne, grandi affari. Un’equazione potenzialmente dorata, dove entrambi i termini crescono in maniera direttamente proporzionale tra loro. Great business, great women lo diceva anche, stando a Federico Buffa, il proprietario dei Dallas Mavericks, Mark Cuban, quando gli chiedevano i motivi per i quali avesse scelto di investire in terra texana. E quando si parla di sport business, un americano conviene quantomeno starlo ad ascoltare.

Uscendo dall’esempio specifico, quello tra sport, donne e business è il connubio su cui ha scelto di scommettere anche il calcio italiano. Ancor di più dal prossimo mese di luglio, quando la Serie A femminile passerà al professionismo. Un passo storico, non solo per il mondo del pallone, ma per l’intero panorama sportivo. Anche per gli uomini, infatti, il professionismo è cosa abbastanza rara. In Italia sono solamente cinque le federazioni che lo riconoscono: calcio fino alla Lega Pro, basket solo per l’A1, ciclismo, golf e pugilato. In tutti gli altri casi gli sportivi sono dilettanti.

La Juventus festeggia la conquista dell’ultimo campionato (Ph: facebook Juventus FC)

Che fosse il calcio a fare il primo passo, c’erano pochi dubbi. D’altronde non si poteva proseguire oltre con un sistema fatto di contratti senza garanzie assicurative o contributive. Dove gli stipendi si chiamano rimborsi spese e gli accordi sono tutte scritture private che, ovviamente, non includono la maternità. L’approdo al professionismo è quindi un passo avanti verso la pari dignità, certo, ma porta comunque con sé qualche domanda. Sulla sostenibilità dell’infrastruttura, ad esempio.

I grandi club del calcio italiano (Juventus, Inter e Milan in primis) che negli ultimi anni hanno acquisito i titoli sportivi di storiche società femminili, creando dal nulla le proprie “quote rosa”, non dovrebbero avere grosse difficoltà a reggere la sfida del professionismo. Più di un dubbio, invece, sarebbe da porselo per le società meno strutturate. E ancor di più sarebbe da chiedersi se questo passaggio non finirà per creare un solco invalicabile tra i, soliti, pochi che potranno permettersi la serie A e il resto del calcio femminile che lotta per esistere.

Ma allora, come nasce un sistema sportivo autosostenibile e, possibilmente, in grado di creare un’economia ad esso collegata? O, per essere meno prosaici, come si costruisce un vero progetto di calcio femminile? Ricette magiche non esistono ma, ad esempio, si potrebbe analizzare come fanno dall’altra parte dell’Atlantico. In quegli Stati Uniti dove, in queste settimane, stanno per fare un altro bel passo avanti: la Federazione calcio USA ha accettato di equiparare i premi destinati a calciatori e calciatrici delle selezioni nazionali.

Certo, si parla dei premi previsti per le Nazionali e non degli stipendi della calciatrici, che continueranno, giustamente, ad essere pagati dai club di appartenenza secondo i propri parametri. Ma è comunque chiaro che, ad oggi, una decisione del genere è ancora lontana anni luce per il calcio italiano. Però è anche giusto capire come ci si arriva a questo livello. Forse uno dei motivi lo troviamo proprio nelle parole di Cuban, che ci spiegano pure l’approccio americano allo sport. Soprattutto quando parliamo di calcio femminile. Questione di show, attrattività e business, prima di tutto. Non di parità di genere. Non al livello ideale in cui la intendiamo noi, almeno.

Se porti la bandiera a stelle e strisce in cima al mondo, infatti, il mondo degli sponsor e dello sport business Made in USA inizia sempre a macinare i suoi grandi numeri. Lynsday Vonn, Venus e Serena Williams sono nomi e “brand” globali. Mettiamoci pure Naomi Osaka, che americana lo è di adozione e formazione, pur gareggiando per il Giappone. Il volto del soccer americano, oggi, è quello di Megan Rapinoe. Capitano della Nazionale e vero e proprio punto di riferimento nel dibattito sulle tematiche sociali e civili. Per informazioni a riguardo, chiedere a Donald Trump. Cose che accadono quando le vittorie in carriera non ammettono discussioni.

Megan Rapinoe (Ph: facebook Megan Rapinoe)

Nell’alveo dei grandi sport di squadra praticati negli Stati Uniti, il calcio è l’unica disciplina dove le donne non solo performano meglio degli uomini, ma proprio li surclassano. La nazionale femminile USA, dal 1996 a oggi, ha vinto quattro volte la medaglia d’oro, una l’argento e un’altra, pochi mesi fa, quella di bronzo. Su otto edizioni dei Mondiali FIFA fin qui giocate, quattro sono state vinte dalle statunitensi, le ultime due consecutive. Nessun paragone è possibile con la selezione maschile, che nel suo albo d’oro conta solo 7 edizioni della limitata CONCACAF Gold Cup, mentre ai Mondiali la sua miglior performance è un terzo posto risalente addirittura al 1930.

Come nasce, però, il miglior movimento di calcio femminile del mondo? Molto si deve ad una legge, il Titolo IX del 1972, che ha riformato il sistema educativo, permettendo alle ragazze di avvicinarsi al calcio, e allo sport in generale, nel periodo scolastico. Dagli anni ‘80 in poi la crescita del soccer femminile è stata esponenziale, favorita anche dalle prime affermazioni della Nazionale. Basti pensare che la pratica tra donne e ragazze di basket e volley da allora è diminuita proporzionalmente allo sviluppo del calcio.

Oggi il pallone è lo sport di squadra più praticato dalle donne al college. Secondo i dati della NCAA – National Collegiate Athletic Association, nella stagione 2018/2019 il calcio contava 28.310 giocatrici, contro le 20.419 atlete di softball, secondo sport per numero di praticanti. Quando costruisci fondamenta del genere, è chiaro che i risultati arrivano. Ecco allora chela National Women’s Soccer League diventa la lega più importante al mondo e che nel corso del 2020, nonostante la pandemia, i telespettatori delle sue partite aumentano in maniera considerevole.

Florida State, campione NCAA in carica (ph: facebook NCAA)

Insomma, negli USA il calcio femminile piace, e non solo in tv. Secondo uno degli ultimi Report FIFA gli spettatori medi a partita sono stati 7.383 contro i 500 del campionato italiano femminile e i 996 di quello inglese, il primo tra quelli europei. Ultimamente ci siamo stropicciati gli occhi nel vedere il Camp Nou pieno per la Champions League femminile, ma sono casi rari. La popolarità di Rapinoe e compagne, invece, è cresciuta a tal punto che, dopo i mondiali vinti nel 2019, il loro completo da gioco è stato il più venduto di sempre, tra uomini e donne, in una singola stagione sul sito www.nike.com.

Tornando al nostro calcio, è ovvio che un paragone con gli Stati Uniti e con altri campionati europei non è al momento sostenibile. Però ci siamo messi in movimento, abbiamo sfatato più di qualche tabù e per fortuna sta davvero cambiando la percezione di una ragazza che gioca a calcio. Per salire davvero di livello, però, non dobbiamo ricadere in uno dei nostri vizi preferiti: puntare tutto sulla Serie A, lucidare il gioiellino che sta al vertice dimenticandosi di tutto il resto dell’organismo che costituisce la base di un movimento sportivo.

Insomma, bene il professionismo, ottimo che le partite di calcio femminile continuino ad essere trasmesse in chiaro anche da noi e che le calciatrici finiscano sulle copertine. Ma dobbiamo allo stesso tempo essere consapevoli che siamo decenni indietro rispetto ad altre realtà. Come quella USA, dalla quale dovremo essere bravi a prendere gli insegnamenti più importanti. Ad esempio che non basta il passo avanti di una singola federazione. Che servono scuola, leggi e progetti a lungo termine. Serve una visione. Perché c’è davvero da costruire un mondo.