Quando si pensa alla mafia vengono in mente nomi famigerati che catalizzano l’attenzione mediatica da molti anni. Di recente si pensi all’arresto di Matteo Messina Denaro sul quale si è a lungo parlato e che farà discutere ancora per molto tempo. È indubbia l’importanza dell’arresto di esponenti di spicco, tuttavia il fatto che sui mezzi di informazione si parli quasi esclusivamente dei principali rappresentanti del crimine organizzato può però far dimenticare che abbiamo a che fare con un fenomeno composto da più persone, interconnesse in una rete spesso nascosta dietro un velo di omertà.

Prima doverosa chiarificazione è che col termine mafia ci riferiamo a delle associazioni a delinquere tra loro molto variegate. Per esempio, Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra sono realtà eterogenee che impiegano modalità di proselitismo, organizzazione gerarchica e ritualità molto differenti tra loro.

La famiglia di Cosa nostra

Soffermandoci ora sul caso specifico di Cosa nostra, un perno centrale della sua psicologia è l’idea che chi ne fa parte non si considera un individuo che ha aderito a un’organizzazione criminosa, ma è egli stesso la mafia e fa parte di una famiglia. Infatti, per un mafioso il senso di un “Io” individuale viene meno, lasciando il posto a un’identità che ruota attorno ad una dicotomica lotta di un “noi” contrapposto ad un “voi”.

Quindi, non può esserci accettazione dell’altro che deve essere riconosciuto esclusivamente come un nemico.

Questa immedesimazione in un “noi” contro “voi” (simile a ciò che avviene in molti estremismi politici o religiosi) non è un cambiamento che avviene nella persona dopo essere diventato membro. Non si diventa parte di Cosa nostra di punto in bianco, ma l’affiliazione è il traguardo raggiunto da un individuo cresciuto in una famiglia, che sin dalla sua nascita lo alleva allo scopo di diventarne parte.

Un mafioso nasce e cresce in un ambiente saturo di un modello culturale che esalta l’importanza dell’appartenenza al gruppo, svalutando o negando il valore dell’individualità.

Diventare adepti

Il risultato di questo lavaggio del cervello è la creazione di adepto di Cosa nostra che ubbidisce ad ogni suo ordine, qualunque esso sia. La morte non lo spaventa perché la vita non termina con il suo decesso, ma perdura fintanto che l’organizzazione di appartenenza continua ad esistere.

Le relazioni affettive e coniugali hanno valore solo nella misura in cui sono un mezzo per generare nuove appendici e proseliti. Non esiste lo sballo da sostanze; l’unico uso delle droghe è per arricchirsi mediante lo spaccio. I soldi rappresentano il potere accumulato e le ricchezze non sono ostentate (a differenza, per esempio, di quanto avviene nella Camorra).

Uccidere una persona non comporta emozioni: il mafioso non prova rabbia, disprezzo o pena per la vittima. Il mafioso è un freddo, lucido e spietato professionista della morte che ubbidisce agli ordini di Cosa nostra senza obiezioni. A differenza di altri estremismi, non si tratta di un fanatico terrorista che uccide degli infedeli per i quali prova rabbia e disgusto, ma è una macchina che esegue i compiti per cui è stata programmata senza farsi nessuno scrupolo.

Lo psicologo Lo Verso, autore de La psicologia mafiosa – Il fondamentalismo nostrano, uscito per Di Girolamo editore, provocatoriamente commenta infatti che un mafioso è “peggio, psicologicamente, di uno jihadista che “almeno” ci mette un odio terrificante”.

Un senso di onnipotenza narcisistica

Questo potere di uccidere impunemente e senza emozioni si traduce a sua volta in un senso di onnipotenza narcisistica che, alla luce di una identità diffusa su un intero gruppo, si configura come un Noi narcisistico. Da qui si capisce la grande spavalderia dei criminali per mafia i quali, anche all’interno delle carceri, mantengono un sereno contegno che tanto si contrappone al malessere vissuto da detenuti per reati non legati alla malavita organizzata.

Eppure, dietro questa facciata di onnipotenza narcisistica di chi ritiene di poter decidere vita e morte degli altri, si nasconde un Io povero e debole che si affida a un’identità fuori da sé per rimanere in piedi.

Non è quindi un caso che in molti collaboratori di giustizia si noti un cambiamento proprio sull’asse identitario che, dall’identificazione con un’organizzazione, si sposta su un’accentuata individualità o sull’investimento in un nuovo gruppo che, solitamente, è il nucleo familiare ristretto.

La latitanza e il potere sulla società

Il bisogno centrale di essere riconosciuto dagli altri quale appartenente a Cosa nostra è ben esemplificato dal fenomeno della latitanza, che rappresenta emblematicamente il connubio tra il senso di onnipotenza narcisistica e il controllo su di un intero tessuto sociale. Mentre ai più verrebbe spontaneo fuggire dal luogo nel quale si sa di essere oggetto di un ordine di cattura, il mafioso permane in zone nelle quali è ben conosciuto e facilmente riconoscibile.

Essere latitante nel territorio stesso in cui si è ricercati riuscendo a nascondersi, venire a conoscenza delle operazioni di polizia evitando arresti o denunce, è la dimostrazione concreta del potere che si esercita sulla società. Perciò, questo atteggiamento è solo apparentemente insensato: il mafioso non può, infatti, permettersi di fuggire perché allontanarsi significherebbe perdere lo status, il prestigio, la fiducia degli altri membri e, in ultima analisi, la propria identità.

Una lotta culturale e antropologica

La lotta alla mafia deve essere, quindi, combattuta anche sul campo culturale e antropologico, in modo da minare le fondamenta psicologiche che ne sostengono la struttura e l’identità. Per fare ciò sono essenziali le conoscenze acquisite dal lavoro di studio ed indagine con collaboratori di giustizia.

È però bene rammentare che i tempi cambiano e con loro mutano anche le ideologie alla base del pensiero mafioso. Un esempio di questo mutamento è il frequente conflitto ideologico nella mafia tra chi ammette l’uccisione di familiari della persona sulla quale vendicarsi e chi, invece, affermando di essere un cosiddetto “uomo d’onore”, condanna tali azioni.

In tal senso è quindi doveroso studiare come la psicologia del crimine organizzato evolva nel tempo e reagisca ai fenomeni culturali e sociali più ampi, in modo da avere strumenti aggiornati per affrontare questa terribile piaga.

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