La curiosità per una ricercatrice è quell’ingrediente potentissimo che tiene svegli e incollati al pc, come succede con le serie TV.

Ecco uno dei segreti della motivazione di Giada Bianchetti, che ci racconta la sua esperienza di dottoranda in bio-fisica.

Ascolta l’episodio del podcast di Ewa Project “Stem by me”

Dottoressa Bianchetti, inizierei chiedendole subito di cosa tratta la biofisica.

«Grazie dell’opportunità! Mi fa piacere introdurvi a quello che è un campo molto affascinante. La biofisica, infatti, è l’applicazione di tecniche e teorie prese dalla fisica, allo studio di cellule e dinamiche biologiche, inerenti alla medicina.»

Giada Bianchetti

E come si è avvicinata a questo settore?

«In realtà, vengo da un percorso umanistico, avendo studiato al liceo classico. Poi però ho trovato nella fisica uno strumento, o meglio una cassetta degli attrezzi, per approfondire la mia conoscenza del molto molto piccolo e mi ci sono innamorata. Ho fatto triennale e specialistica all’Università Cattolica di Brescia, mentre ora il dottorato di ricerca è al Policlinico Gemelli di Roma.

Davvero una bella ascesa! E in cosa consiste il focus del suo dottorato?

«Mi occupo di “imaging metabolico funzionale”, ovvero di fotografare e studiare al microscopio le reazioni che diverse patologie possono avere al livello della cellula. Nello specifico, io analizzo questi processi a livello del metabolismo cellulare, quindi nella produzione e nella gestione dell’energia.»

Immagino serva tanta pazienza e tanta attenzione per seguire e tracciare questi cambiamenti…

«…sì, è proprio così. La ricerca di laboratorio richiede molta curiosità, tanto intuito e una buona dose di chiarezza mentale nell’inseguire il proprio obiettivo e non perdersi d’animo. Bisogna immaginare questi sforzi come delle piccole tappe che aiutano tutta la comunità scientifica a progredire nelle scoperte, un esperimento dopo l’altro. È veramente una maratona di idee, di azioni, di approfondimenti – una scoperta alla volta.»

E questa curiosità è, quindi, l’olio che rende più fluidi gli ingranaggi e mantiene vivo il processo?

«Esattamente. Per i ricercatori è un filtro i sacrifici, ma anche quasi una dipendenza… talvolta quel micro-problema, quella relazione da decifrare, quell’incognita occupa tutti i pensieri. E ci si ritrova a restare incollati al pc per ore, a riaprire le analisi anche a casa, un po’ come succede con le serie tv. Cominci con un puntata e ci passi la notte!»

Oltre a queste dosi massicce di interesse, quali crede siano gli ingredienti fondamentali per la carriera da ricercatrice?

«Rigore, metodo e lavoro di squadra, conditi da umiltà e onestà intellettuale. Per come la vedo io, infatti, tutti i lavori di ricerca concorrono alla creazione di quell’immenso sapere della comunità scientifica, in cui ciascuno parte dall’ultimo punto a cui è arrivato il collega precedente. E dobbiamo riconoscere i meriti reciproci e lavorare come una grande squadra.»

Cosa direbbe a Giada di una decina di anni fa, se potesse darle un consiglio ora?

«Di sicuro le suggerirei di non mollare, di non abbattersi – e che i sogni rimangono tali, quando non si fa nulla per realizzarli. E quindi di lottare per le sue idee, di farle diventare progetti e realizzarli, un passo alla volta!»

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