Una lezione di buona comunicazione e di umanità, per noi occidentali, giornalisti e non, arriva da Est. Non l’”East” ucraino, che da una settimana occupa le prime pagine di tutti i giornali, bensì quello che, per una convenzione geografico-politica comunemente chiamiamo, con forse non sufficiente responsabilità storica e storiografica, Middle-East. Non tanto il Medio Oriente delle mappe; ci riferiamo al Medio Oriente che possiamo, noi Western Countries, immaginare.

L’Associazione dei giornalisti arabi e mediorientali (“AMEJA”), un’organizzazione no-profit registrata negli Stati Uniti, che raccoglie professionisti dei media di origine araba e mediorientale, ha pubblicato, lo scorso febbraio, una dichiarazione in risposta al coverage giornalistico della crisi ucraina e ai suoi malcelati bias.

Che cos’è un bias

Premessa necessaria: che cos’è un bias? I bias cognitivi e le euristiche sono dei costrutti
fondati su ideologie e pregiudizi che possono indurre in errore. Quando questi cortocircuiti cognitivi infettano i flussi informativi su cui le nostre società costruiscono le proprie identità e pretendono di definire quelle altrui, l’intera narrativa pubblica ne risulta infiacchita.

AMEJA

AMEJA, a riguardo, sollecita tutte le testate giornalistiche a prestare attenzione ai pregiudizi impliciti ed espliciti nella copertura della guerra in Ucraina. Solo negli ultimi giorni, l’organizzazione ha individuato esempi di copertura giornalistica razzista, che reclama maggiore importanza per alcune vittime di guerra rispetto ad altre. Di seguito si riportano gli stralci tradotti dei suddetti interventi.

Il 26 febbraio, durante un news segment di CBS News, il corrispondente Charlie D’Agata ha commentato: “Ma questo non è un luogo, con tutto il rispetto, come l’Iraq o l’Afghanistan, che ha visto infuriare il conflitto per decenni. Questa è una città
relativamente civile, relativamente europea – devo anche scegliere con attenzione queste parole – una città in cui non te lo aspetteresti”.

Daniel Hannan di The Telegraph ha scritto: “Sembrano così simili a noi. Questo è ciò che
lo rende così scioccante. La guerra non è più una cosa visitata da popolazioni povere e
remote. Può succedere a chiunque”.

Peter Dobbie, presentatore di Al Jazeera English, ha dichiarato: “Ciò che è avvincente è che solo a guardarli, il modo in cui sono vestiti, sono ricchi… sono riluttante a usare l’espressione… gente della classe media. Questi non sono ovviamente rifugiati che cercano di allontanarsi dalle aree del Medio Oriente che sono ancora in un grande stato di guerra. Queste non sono persone che cercano di allontanarsi dalle aree del Nord Africa. Sembrano una qualsiasi famiglia europea a cui vivresti accanto”.

“Non stiamo parlando di siriani che fuggono dai bombardamenti del regime siriano sostenuto da Putin, stiamo parlando di europei che se ne vanno in auto, che assomigliano alle nostre, per salvarsi la vita”, riferisce Philippe Corbé, per BFM TV.

Quali implicazioni?

AMEJA condanna, e noi con loro, le implicazioni orientaliste e razziste secondo cui qualsiasi popolazione o paese che si voglia definire incivile o che sopporti fattori economici debilitanti, sia pensabile degno di conflitto. Queste asserzioni riflettono la tendenza pervasiva, diffusa nel giornalismo occidentale, del normalizzare le tragedie umanitarie in alcune parti del mondo come il Medio Oriente, l’Africa, l’America Latina, il Sud-Est Asiatico.

Questo monito allora serve a prevenire quella normalizzazione cognitiva che trasforma l’esperienza della guerra in qualche modo prevedibile e giustificabile. Le agenzie mediatiche non devono, in questo senso, arroccarsi in paragoni che implicano l’accettazione semantica di un conflitto rispetto a un altro: le vittime civili sono recriminabili in altri paesi tanto quanto lo sono, in queste ore, in Ucraina.

Una copertura fallace

Una copertura fallace non solo può decontestualizzare tali conflitti, asciugarne la complessità delle porzioni di umanità in scontro aperto sul campo, ma contribuisce anche alla cancellazione delle specificità delle popolazioni e della loro memoria storica.

Al fine di prevenire l’esercizio di tali pregiudizi, è necessario che le redazioni educhino i corrispondenti alla consapevolezza riguardo le sfaccettature culturali e politiche delle regioni di cui riferiscono, sì da decostruire efficacemente quelle risposte pregiudizievoli sempre pronte a fare capolino nel dibattito pubblico e strutturare, invece, risposte multiculturali e responsabili all’urgenza delle crisi politiche e umanitarie.

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