Occhi neri, braccia gonfie, muscoli che vengono colpiti. Ci sono corpi che subiscono, incassano e in qualche maniera trovano il passo per andare avanti. Altri reagiscono, e raccontano storie, di donne, e di violenza.

I corpi sono memoria e presente, testimonianza viva di usi e abusi che si accumulano negli anni. Se parliamo di atleti, poi, quei corpi si fanno letteratura. Se parliamo di atlete, certe pagine sono più oscure di altre e probabilmente non basterebbe l’intera gamma di autori Netflix per tenere il conto dei documentari da produrre.

Sono giorni particolari, dove vediamo sportivi professionisti rigarsi le guance di rossetto, numeri telefonici in sovrimpressione e grafiche di grande impatto. Ben vengano, c’è sempre bisogno di megafoni. A patto che poi si voglia approfondire. Che ci si ponga delle domande, si voglia osservare sul serio e diradare la nebbia.

Certe volte, però, la nebbia è molto più pesante del previsto. Pesa sulla pelle, si incaglia nelle ossa, proprio non ci riesci ad attraversarla. Perché è come un muro, quante volte l’hai sentito dire. Ce l’hai tutta intorno, tanto che la nebbia sei tu. Il muro sei anche tu.

Heidi Krieger, in gara, nel 1986

Se vivi in Germania tra gli anni ‘70 e gli ‘80 di muro ce n’è soltanto uno. Se lo sport è la tua vita il Muro di Berlino è il gol di Sparwasser a Germania ’74 e la parabola di Lutz Eigendorf (il “Beckenbauer dell’est”) che termina a bordo strada, contro un albero. Oppure il derby tra Herta e Union. Il Muro di Berlino è anche guardarsi allo specchio, e non riconoscersi.

Ai bordi di quel muro cresce Heidi Krieger, che a 14 anni ha le spalle da camallo e getta già il peso molto più lontano di tutte le sue coetanee. Ma per la Stasi non basta, servono record e medaglie per lucidare l’onore della DDR.

Muro, nebbia, chiamateli come volete, in quel periodo potete anche usare una sigla più scientifica: Oral-Turinabol. Lo steroide prodotto dalla Jenapharm, l’azienda di Stato, ha un nome che non mette paura. Però regala centimetri, e ori, prima Juniores e poi ai campionati europei di Stoccarda, nel 1986. Heidi stupisce il mondo, ma anche sé stessa. Perché quelle spalle sono sempre più larghe, la mascella si fa quadrata e la voce profonda. Il seno scompare. La violenza non sempre è un labbro che sanguina.

La carriera di Heidi Krieger finisce ufficialmente nel 1990, a 24 anni, ma già da un po’ il suo corpo aveva smesso di rispondere, di appartenerle. Prima era un robot, lanciava il peso oltre i 21 metri, ora fatica ad alzare una scatola. L’Oral-Turinabol fa anche di questi regali se te lo somministrano in dosi massicce per dieci anni. Doping di Stato, l’hanno chiamato.

Dal 1997 Heidi non esiste più. C’è Andreas. In un’intervista ha detto che già pensava di avere inclinazioni omosessuali prima della sua operazione, ma l’assunzione di tali sostanze lo ha costretto in una persona che non riconosceva più, una donna che non aveva più nulla di femminile, così ha deciso di cambiare totalmente. Da quel giorno deve assumere quotidianamente ormoni maschili, che il suo corpo ovviamente non produce. Andreas Krieger si è sposato con Ute Krause, ex nuotatrice, anche lei dopata, per anni sofferente di bulimia. Certi pesi non puoi portarli da solo.

Andreas Krieger, in una recente intervista

La violenza produce vittime. Superfluo doverlo specificare, se il mondo fosse un posto giusto. La violenza produce dolore, bruttura, sterilità. Desertifica animi e persone. In mezzo a questo deserto, però, spuntano ancora germogli rigogliosi.

Non so se esistono fiori che rispondono colpo su colpo, e tirano mazzate. Se ci sono, hanno di certo i lineamenti di Lina Khalifeh, giordana, ex campionessa di Taekwondo, che dal 2010 diffonde il metodo di autodifesa “SheFighter”. Un’esperienza iniziata ad Amman, nel garage di casa, con un manciata di amiche e che ora si estende in oltre 35 paesi nel mondo. Più di 18mila donne allenate, le star di Hollywood, Barack Obama che ti riceve alla Casa Bianca.

Nei suo centri sportivi in Giordania e Medio Oriente è vietato l’ingresso agli uomini, per far sentire ogni donna a proprio agio, al sicuro e libera di indossare l’abbigliamento che preferisce durante gli allenamenti. Anche togliere ingombranti centimetri di stoffa può essere un primo cazzotto dritto al muso della società.

«Conoscevo bene le arti marziali, ho deciso di mettere quest’esperienza a disposizione delle donne, per dar loro una voce e una linea guida per uscire dal pantano di una società ancora troppo a guida patriarcale». Conosceva bene anche le leggi del marketing Lina, il settore in cui lavorava nell’azienda di famiglia. Una buona posizione di partenza, soprattutto in Medio Oriente, non c’è bisogno di nasconderlo. Le cose belle splendono anche senza filtri. E i colori sembrano sempre più vividi sotto il sole del deserto. Ah, oggi le palestre “SheFighter” sono aperte anche ai bambini maschi vittime di bullismo nelle scuole.

Lina Khalefi (a sx.) con un gruppo di donne “SheFighter”

Lina e Heidi, poi Andreas, parabole distanti migliaia di chilometri ma legate da un malessere gelido, che scorre in profondità. Che non si esprime a schiaffi, ma in maniera molto più subdola. “Era solo una battuta”, ma fa male più di un pugno. Per chi ha davvero voglia di comprendere, ci sono numeri e i report. Quelli che ci dicono che, restando all’ambito sportivo, molte atlete sono accettate dalla società e ricevono una copertura mediatica solo se partecipano a sport tradizionalmente “femminili”. Se una donna sceglie di praticare discipline “maschili”, la sua sessualità viene ancora oggi messa in discussione.

I report annoiano direte, e poi chissà chi hanno intervistato. Ok, allora ascoltiamo solo queste parole. E fidiamoci.

«Quando ogni mattina mi guardo lo specchio – dice Andreas – rivedo l’immagine di ciò che mi hanno fatto, e di chi ero. Una volta ho detto che hanno ucciso Heidi, ed è esattamente ciò che è successo. Il mio corpo e la mia vita sono cambiati e io, per sopravvivere, sono dovuto diventare un’altra persona».