Una celeberrima canzone di Francesco Guccini recitava:

cadeva la pioggia, segnavano i soli  
il ritmo dell’ uomo e delle stagioni…

Già, il ritmo, l’alternarsi dei momenti climatici e il connesso variare dell’abbigliamento e delle attività lavorative: oggi lo consideriamo essenzialmente nella prospettiva delle ferie d’estate o della settimana bianca. In realtà se non ci fosse la scuola con i suoi tempi, scanditi ancora secondo un ben preciso ritmo di attività, forse nemmeno ce ne accorgeremmo. Non parliamo poi della pausa del riposo settimanale, in passato legata al rigoroso rispetto della domenica e delle sue liturgie sacre e profane, oggi condizionata da ben diverse ragioni ed esigenze di organizzazione del lavoro. C’è chi, a prescindere dai valori religiosi, riposa il martedì, chi il giovedì  etc. etc.

Per certi aspetti sembra che la società digitalizzata e permanentemente connessa insieme al superamento dello spazio stia vivendo anche la dissoluzione del tempo. Aspetto, questo, portato ora al parossismo dalla situazione creata dalla pandemia. Siamo di fronte a una cronolisi pandemica. Non pratichiamo e non viviamo più un tempo dotato di ritmo, ma un continuum indifferenziato, senza scansioni. Secondo Platone il ritmo è “l’ordine del movimento”. Dovremmo quindi dedurne che una vita e una organizzazione senza ritmi sono realtà senza ordine? Non mi azzardo a dare risposte, vorrei invece affrontare l’idea di tempo e di come, percepita e vissuta nel mondo antico, si è di fatto sedimentata nel pensiero istintivo occidentale, tanto da condizionare anche certi nostri schemi mentali.

Diciamo subito che due sono le modalità in cui anticamente viene percepito il tempo. La prima è quella ciclica, basata sul ripetersi naturale degli eventi atmosferici e meteorologici, caratteristici (e questo è fondamentale) dell’a­rea mediterranea, da principio con la distinzione fondamentale in due periodi: primavera-estate o bella stagione e autunno-inverno o cattiva stagione. In Grecia questi erano i due periodi climatici chiamati θέρος théros e χειμών cheimón a poco a poco distintisi ulteriormente in tre (ἔαρ éar, théros e cheimón: primavera, estate e inverno) e finalmente in quattro, con la distinzione fra prima estate (théros) e la fase successiva ὀπώρα opóra, la stagione dell’abbondanza e del raccolto, passata poi a indicare l’autunno, chiamato, anche φθινόπωρον (lett. fine-opóra) in riferimento al suo trascolorare verso l’inverno.

La cultura ebraica, poi, sulla quale si sarebbe innestato il Cristianesimo, aveva tradizionalmente introdotto come precetto, ancor più che come pratica, la pausa settimanale, con l’idea del giorno riservato a Dio e sottratto alle attività pratiche, perciò destinato esclusivamente alla spiritualità.

L’altra modalità è quella del tempo lineare, teorizzata inizialmente da Esiodo nel poema didascalico Le opere e i giorni, in base alla quale il tempo è una progressiva successione di stadi di decadenza, da una originaria Età dell’Oro fino a quella in cui vive Esiodo, considerata l’Età del Ferro. Nell’età dell’Oro dèi e uomini convivevano e la terra produceva i suoi frutti spontaneamente, la pioggia e il sole coltivavano il suolo e gli uomini non dovevano ammazzarsi di lavoro per procurarsi da vivere.

Non diversamente la cultura ebraica aveva elaborato, con la narrazione della Genesi e la ideazione del giardino dell’Eden, la sua rappresentazione dell’aurea fase primigenia, e, come per Esiodo l’Età del Ferro rappresenta la caduta nella fatica e nel dolore, così per la Bibbia la cacciata dal Paradiso Terrestre rappresenta la caduta nel tempo come condanna alla dimen­sione del lavoro e del male di vivere, ma soprattutto come separazione da Dio.

I due aspetti sono compresenti in entrambe le tradizioni, ma possiamo dire che in Esiodo è particolarmente sottolineata la dimensione della fatica e del dolore materiale, nella Bibbia invece è specialmente posto in risalto l’inizio della storia come allontanamento dal Bene Supremo.

Le due visioni del tempo si sono poi fra loro intrecciate e per certi aspetti fuse. Nella filosofia pitagorica, ripresa da Platone, e successivamente in quella degli Stoici, il tempo sarebbe scandito dal movimento dei pianeti, i quali, ri-allineandosi periodicamente in modo perfettamente coincidente allo schieramento delle origini, darebbero vita, a distanza di secoli, a periodi chiamati ciascuno “grande anno” (in greco ἀιών aión, in latino aevum) al termine dei quali si verificherebbero cataclismi e deflagrazioni che produrrebbero una palingenesi totale, e il cominciamento ex novo della vita nel cosmo.

Tutto sommato nei nostri più comuni schemi mentali potremmo dire che la progressione lineare del tempo è stata percepita, almeno fino alla generazione degli uomini dell’Età del Ferro, come sviluppo diretto di una spirale: le settimane e i giorni, i mesi e le stagioni ritornano periodicamente, ma la vita avanza e l’età individuale si aggrava, così che possiamo dire, con l’autore del film Prima della pioggia, “Il tempo non muore, il cerchio non è rotondo”.

Oggi in qualche misura sopravvivono ancora dentro di noi queste concezioni, ancorché cadute in disuso nella prassi, spesso frammiste ad altre che si stanno sviluppando, e comunque progressivamente assunte quali schemi istintivi e automatici, benché non autenticamente sentiti e vissuti, nella vita reale quotidiana. Questo perché agli Uomini di Ferro sono succeduti gli Uomini di Carta, per i quali i riti e i miti non sono più quelli della fatica e della devozione, ma del sillogismo giuridico e della liturgia amministrativa. Gli Uomini di Carta hanno annullato e riorganizzato i ritmi del lavoro stagionale e svolgono le loro opere non secondo le scansioni della natura, ma secondo i turni dell’adempimento e della funzione connessi con la produttività. Essi incardinano il soggetto a compiti, mansioni, scadenze, orari e non riposano secondo natura, ma secondo cultura, se poi mai riposano….

Ma anche gli Uomini di Carta hanno dovuto gradualmente cedere il campo, nell’era delle onde radio, a un’altra generazione, terribile e sfuggente: quella degli Uomini d’Aria, evanescenti e virtuali, navigatori della impalpabile leggerezza dell’etere e influenti sulle anime candide del mondo con immagini di seduzione e fascinosa malia.

Gli Uomini d’Aria hanno ibernato e sterilizzato il Genius Loci e con esso dissolto il ritmo anche degli orari e dei turni. Gli Uomini d’Aria sono agili e leggeri, non conoscono confini e non hanno limiti di tempo. Per questi sembra essere tornata l’Età dell’Oro, e davvero si può pensare che senza cataclismi e deflagrazioni, si siano compiute le complesse volute dei “grandi anni”. Ma è solo un’illusione ottica, in realtà: come giriamo lo sguardo, osserviamo ancora nello spazio reale il dibattersi faticoso e grave di molti uomini, ancora legati alle dure e inflessibili ragioni dell’Età del Ferro e altri, agganciati ferocemente ai loro concetti di dovere e gerarchia propri dell’Età di Carta. Si è aperta, ora, infatti, la stagione del plasma spazio-tempo­rale.

Ecco dunque il paradosso contemporaneo. Forse come dice Carlo Rovelli “Il tempo non esiste”, ma nel gioco irregolare degli spazi, si stendono in contemporanea diverse dimensioni del tempo. Non esiste più un tempo collettivo, ma tanti tempi privati e individuali; segno forse, anche questo, del dissolversi della polis, della città comune in mille rivoli di individualistiche dimensioni circoscritte.

Strano destino questo della nostra generazione. Nell’era in cui il mondo è diventato un villaggio, ci sentiamo quasi apolidi, perché non sappiamo più condividere con i vicini, spesso anche con i familiari, il tempo di una vita che fluttua sui tasti di uno smartphone e mentre il digitale ci apre gli infiniti confini dello spazio, ci sottrae, senza che ce ne rendiamo conto, la dimensione umana di un tempo condiviso, dotato di significato e capace di ancorarci a una comunità. La pandemia poi sta portando all’esasperazione estrema queste situazioni creando circuiti di relazioni virtuali, ai quali sanno adeguarsi solo coloro che posseggono l’alfabeto della digitalizzazione avanzata.

E qui ci soccorre un’altra importante distinzione, quella fra καιρός kairós e χρόνος chrónos ovvero fra il “momento”, l’“occasione propizia”, l’istante da “afferrare al volo” e  la durata, l’estensione cronologica lineare, percepita e vissuta come flusso continuo. Ecco, nel qui e ora del kairós si consuma spesso l’orizzonte di senso di vite che non sanno andare oltre la sfera delle proprio narcisismo e ambiscono a fare della propria vita un unicum, quasi un modello per altri che si sentono invece immersi nel magma di una vita monotona e sempre uguale.

Forse siamo nella camera di fusione di un nuovo umanesimo? Vedremo, il tempo è galantuomo.