Non appena si avvicina l’inizio dell’anno scolastico, immancabile arriva l’annuncio (regolarmente disatteso) della fine delle “classi pollaio” con nuove assunzioni (che a mala pena sostituiscono i pensionamenti e le cattedre del precariato), nuove strutture o con altri tipi di intervento economico. Come l’ultimo di agosto (una tantum) di 22 milioni, somma esigua e peraltro vincolata a rigidi parametri.

Il Ministro Patrizio Bianchi afferma che il fenomeno coinvolge il 2,9% delle classi, prevalentemente negli istituti tecnici delle grandi città. Le norme, stabilite ai tempi della riforma (2009-2010, Governo Berlusconi IV) definiscono una densità tra i 15 e 27 alunni (18-29 materne, 15-27 elementari, 18-28 superiori di I grado; 27-30 per le superiori di II grado). Quindi tutto bene? Insomma: il dato del Ministro è corretto nel complesso ma, come sottolinea il dossier di Tuttoscuola (settembre 2021), “al primo anno delle superiori le classi pollaio sono il 15% del totale, nei licei scientifici addirittura una su quattro, con anche 40 studenti in aula.” Ne discende che, come nel paradosso del mentitore di Epimenide di Creta, l’affermazione del Ministro che punta a ridimensionare il problema è vera e falsa allo stesso tempo.

Global Teacher Status Index del 2018

Con il Covid e la necessità di far rispettare le distanze, in modo inatteso viene messa a nudo l’italica furbizia che fino ad oggi si limitava ad ammassare gli alunni per evitare di creare nuove classi, che avrebbero richiesto più aule (che alle superiori non ci sono) e più docenti, ovvero più edilizia scolastica e più assunzioni e, quindi, più risorse. Risorse che, invece, nel corso degli anni si sono assottigliate per lo scarso valore dato alla formazione scolastica, dato evidente incrociando la reputazione dei suoi operatori, ovvero i docenti (Secondo il Global Teacher Status Index del 2018 l’Italia è risultata ultima in Europa e terzultima nel campione).

Ma, come dicevamo  tempo fa, questa storica inerzia della politica a rispondere in modo strutturale alle richieste delle famiglie e dei sindacati, specie dopo l’ondata di indignazione per la Didattica a Distanza che aveva polarizzato l’attenzione per una volta sui ragazzi, sembrava inspiegabile anche in ottica elettorale.

A dissipare ogni dubbio e a dimostrazione che l’andreottiano “a pensar male si fa peccato ma quasi sempre si indovina” ha oramai assunto a pieno titolo lo status di assioma, le dichiarazioni del ministro Bianchi e il confronto col PNRR che dimostrano che l’inerzia è stata una scelta precisa e che la strategia del Governo per ridurre il fenomeno delle classi pollaio o, comunque, l’alta densità di studenti punta sull’atteso calo demografico che, come segnala il Corriere della Sera, nel 2036 sarà di 1,1 milioni di unità, ovvero un settimo degli attuali.

Per carità, nessuna novità sconvolgente e inattesa. I dati Istat segnalano da anni che per la natalità l’Italia sta vivendo un lungo e irreversibile inverno, che ha visto passare il numero dei nostri studenti da 8.109.389 nel 2002, 8.325.217 nel 2012 a 7.564.791 (dato parziale) nel 2021 per un saldo negativo di -544.598 e un indice di natalità che è sceso dal 9,8×1000 abitanti al 7×1000 nel 2019.

Preso atto di ciò, le risorse non strutturali del PNRR saranno dunque indirizzate come visto al contenuto della didattica e le risorse complessive del sistema scuola, in calo costante da anni, potrebbero dunque recuperare incisività con una platea sempre più ridotta di beneficiari. Ed ecco allora che già ad Ottobre 2021 abbiamo l’annuncio di 13 miliardi di investimenti (sempre con i fondi del PNRR) non sul personale ma su altri temi, certo importanti, ovvero su nuova didattica per forma e contenuti. La riforma 1.3 del piano mira poi a “ripensare all’organizzazione del sistema scolastico” con “il superamento dell’identità tra classe demografica e aula, anche al fine di rivedere il modello di scuola. Ciò, consentirà di affrontare situazioni complesse sotto numerosi profili, ad esempio le problematiche scolastiche nelle aree di montagna, nelle aree interne e nelle scuole di vallata.” Ovvero: potrebbe sbiadire quell’impostazione di stampo militare della scuola che raggruppa tutti gli alunni per livelli di età ignorando il loro individuale livello di maturazione (esattamente come per il servizio militare) e che ancora oggi per l’assunzione dei docenti parla di “reclutamento”.

Dal punto di vista occupazionale, non ci dovrebbero essere particolari problemi perché gli esuberi verranno bilanciati dai pensionamenti di una classe di lavoratori tra le più anziane, come mostrano i numeri di Orizzontescuola, per i quali “I dati aggiornati dicono che alla primaria il 58% dei maestri ha almeno 50 anni, contro la media Ocse pari al 33%. Ancora più alto il numero di insegnanti della secondaria over 50enni: sono il 62%, praticamente due su tre”. Rimane irrisolto, invece, il nodo dell’età media dei docenti, sempre meno adatti a formare alla contemporaneità i propri allievi.  

Si badi, qui non si discute se il Ministero sappia o meno fare i suoi conti: i dati del declino demografico sono noti da tempo, così come è risaputo che l’attuale ondata di adolescenti che sta mettendo alla corda la secondaria di II grado prima o poi passerà. Quello che spiace, al solito, è il comportamento di uno Stato allergico alla verità e al confronto, che tratta i propri cittadini come bambini secondo un modello da regime paternalistico ottocentesco. Uno Stato per cui con i propri sudditi non si deve né ragionare né dire la verità, ma che preferisce blandirli come bambini, come una mamma che promette un gelato se si farà i bravi; gelato che, come sappiamo tutti, non mangeremo mai.

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