Abbiamo lasciato il presidente Obama a gestire i propri dubbi, sia sulla sua stessa rielezione che sull’uso che un qualunque altro presidente (meno assennato e giudizioso di lui, vien da pensare) avrebbe potuto fare con tanta libertà legalizzata di uccidere con la nuova “guerra umana”. Durante un discorso a Fort McNair nel 2013, in cui difende la legittimità internazionale nell’uso dei droni, Obama viene duramente criticato da una pacifista (immediatamente rimossa dal pubblico dalle guardie del corpo) e commenta – fuori sceneggiatura – che in effetti la signora non ha tutti i torti, che ci sono delle ragioni in quanto da lei sostenuto con tanta veemenza. Dà finalmente voce al suo dubbio di sempre, e cioè che “l’uso della forza da solo non ci mette al sicuro. Non possiamo usare la forza dovunque nasca un’ideologia radicale. Se manca una strategia che riduca la nascita degli estremisti, la guerra perpetua si dimostrerà controproducente. Questa guerra, come tutte le guerre, deve avere una fine”.

La fine di una guerra senza fine, l’uscita da un pantano rivelatosi molto più appiccicoso del previsto. Parole che ci sono tornate subito alla memoria ascoltando il discordo di Joe Biden seguito al ritiro delle truppe dall’Afghanistan, talmente uguali da far sospettare che i due presidenti abbiano lo stesso ghost writer. Uscire, riportare a casa i ragazzi, porre fine alla guerra: quello stesso ragionamento pacifista, insomma, che ha meritato a Obama un Nobel e al suo ex-vice gli improperi di tutta l’opinione pubblica. Ma torniamo a noi, che non possiamo dimenticare il presidentissimo che si è infilato tra Obama e Biden.

Donald Trump: il guerrafondaio pacifista

Qualche giorno prima delle primarie del Sud Carolina nel 2016, Trump dichiara alla TV che la guerra in Iraq “è stata la peggior decisione nella storia americana. Abbiamo destabilizzato il Medio Oriente, provocando l’ascesa dello Stato Islamico e i conflitti in Siria e Libia”. Vince con 10 punti di distacco e non torna più indietro: la sua campagna sfrutta l’assenza di una simile autocritica da parte della signora Clinton (che aveva votato a favore) per proporsi come un Comandante in Capo affidabile e contrario alla guerra.

Donald Trump

Una volta eletto, anche Trump si esprime elegantemente nel voltafaccia già visto con Obama, dichiarando qua e là frasi aberranti, tipo che “la tortura funziona” per dirne una, e l’intenzione di rivedere il PPG.

Dopo tanto abbaiare, però, Trump si trova sdentato al momento di mettere in pratica le sue pur meravigliose idee: sia il Congresso che i colleghi repubblicani e perfino la CIA si oppongono al proposto ordine esecutivo che restituisce la tortura e The Donald deve accontentarsi si un documento simile al PPG ma più permissivo, anche se mai applicato di fatto.

Seppur incastrato nella guerra umana ereditata da Obama, Trump ce la mette tutta per farsi notare: con grande sdegno pubblico, ritira le truppe dalla Siria abbandonando gli ex alleati curdi al proprio destino, bombarda la Siria in risposta all’uso di armi chimiche (non usa la formula di rito “armi di distruzione di massa” ma il messaggio arriva forte e chiaro) e dispone l’assassinio dello stratega iraniano Qassem Suleimani. A parte questi exploit che sollevano sopracciglia, il suo ulteriore aumento del budget militare ed espansione del programma di droni lascia indifferenti, in fondo segue le orme del predecessore, uno bravo.

La lotta globale al terrore ha funzionato?

Nella definizione inventata da Bush e utilizzata da tutti i successivi presidenti, la “war on terror” ha lo scopo di annientare i terroristi ovunque si nascondano, partendo dal nemico numero uno, al-Qaeda, per poi allargarsi a macchia d’olio, in modo difficile da seguire per le istituzioni internazionali che si limitano a non condannare le ripetute azioni militari statunitensi. Difficile dire che la strategia abbia avuto esito positivo: vero che sono stati neutralizzati numerosi terroristi, più o meno noti, sono stati evitanti ulteriori attentati e sicuramente una vendetta è stata ottenuta per l’affronto di distruggere le Torri Gemelle.

Ma è anche evidente che i movimenti fondamentalisti non sono stati annientati, si sono semmai frammentati in numerose fazioni, spesso addirittura in lotta tra loro. La minaccia jihadista sembra avere un raggio di azione geograficamente molto più esteso rispetto al 2001 e qualcosa come 8 trilioni di dollari non sono riusciti a scalfire l’organizzazione di al-Qaeda o aver impresso una sconfitta decisiva. Forse si è raggiunto lo scopo di dividere per indebolire ma da qui al divide et impera di scolastica memoria ne passa, se ancora nel 2019 si contano 5mila morti in circa 900 attentati in tutto il mondo e si stima che il numero dei militanti sia oggi 4 volte quello del 2001.

Anche la seconda fase dell’intervento in Afghanistan, quel famoso “nation building” apparso su molti giornali, non si è dimostrato molto efficace. Poco o nulla è cambiato nella cultura e nelle tradizioni del Paese, con eccezione della capitale Kabul, dove si è visto il fiorire di una società più equa e occidentale. Gli afghani delle zone rurali sono invece rimasti intoccati dai tentativi di occidentalizzazione, mantenendo tutte le loro abitudini secolari, specie nei confronti delle donne, da sempre (e vien da dire, per sempre, visto il ritorno dei Taliban) relegate ai margini, con scarso accesso all’istruzione e succubi di padri e mariti che ne decidono le sorti senza possibilità di appello. Gli afghani sono rimasti legati all’economia del papavero, in costante espansione negli anni e sfruttata sotto traccia anche dai terroristi che, grazie alle imposte sulla produzione e sul trasporto, sono in grado di promettere stipendi impensabili ai giovani afghani per portarli verso la causa jihadista.

Non solo: il think tank Freedom House stima che i paesi definiti come “non liberi” sia passato da 45 nel 2005 a 54 nel 2020, ulteriore evidenza che la democrazia esportata e imposta come modello con la forza non attecchisce nel fondo culturale di un Paese.

L’America è cambiata

L’accettazione di questa sconfitta dell’Occidente è sicuramente alle basi della decisione di interrompere l’azione in Afghanistan, ma riteniamo vada considerato anche il diverso contesto in cui si trova l’America oggi, rispetto a vent’anni fa.

Per iniziare, gli Stati Uniti hanno perso il primato solitario nell’economia mondiale, con il PIL cinese che è passato dal 12 al 70% di quello USA e il numero dei Paesi che fanno più affari con gli USA che con la Cina in caduta libera (da 163 nel 2000 agli attuali 52). Bloccare l’influenza cinese è sempre stato in tutte le agende politiche, fin dai tempi di Bush, ma è sempre finito schiacciato da altre priorità, mentre il dragone avanzava come una macchina da guerra commerciale inarrestabile. Sempre sul piano economico, rileviamo come gli USA non abbiano più “bisogno” del Medio Oriente come un tempo, essendo divenuti nel frattempo indipendenti dal petrolio arabo, tanto da poter guardare con un certo distacco alle “beghe” regionali.

L’attuale presidente americano Joe Biden

Sul piano politico, si è assistito nel tempo alla polarizzazione tra il partito democratico e repubblicano, un tempo molto convergenti verso il centro. Probabilmente il processo è iniziato con i “Rally around the flag” del 2001, anno in cui i consensi per Bush toccarono il 90%. La storia mostra come i politici americani siano tutti fatti più o meno della stessa pasta, a dispetto di sesso, partito e perfino colore: pragmatismo e gran pelo sullo stomaco. Dopo l’11 settembre, l’islamofobia era generalizzata e l’America tutta unita contro l’aggressore. Questa unità si è progressivamente disgregata, incalzata da una popolazione molto meno bianca (i WASP erano quasi il 70% nel 2000 e il 57,8% nel 2020) e sempre più vecchia a causa del crollo demografico. Il gap generazionale e soprattutto culturale emerso a prepotenza con il movimento BlackLivesMatter non riesce più a giustificare la paura indiscriminata del diverso, in un cambiamento che sicuramente è servito da ulteriore spinta alla nuova strategia americana.

Just a little bit of history repeating – o no?

Gli Stati Uniti hanno davvero tentato di ripetere la Storia. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale avevano ridisegnato i confini geografici, economici e culturali dell’Europa, a proprio gusto e con pochissima resistenza da parte degli Stati. Approccio simile a quello tenuto dopo la Guerra Fredda, con la caduta del muro di Berlino e la progressiva annessione degli Stati oltre cortina all’alleanza transatlantica.

Ci sono voluti 50 anni per riuscire in Europa e 20 per ammettere il fallimento in Medio Oriente, che si è dimostrato uno spreco enorme di risorse ma, forse ancor più grave, ha instillato il dubbio che gli USA non siano più quella superpotenza che muoveva a suo piacimento lo scacchiere mondiale. Il ritiro dall’Afghanistan è la variabile più incisiva sulle possibili evoluzioni degli equilibri mediorientali, lasciando il campo aperto ai movimenti integralisti, come avvenuto col il ritiro dall’Iraq e l’immediata avanzata dello Stato Islamico a colmare il vuoto. Chiunque pensi di poter prevedere come si disporranno le nuove alleanze e le dinamiche politico-economiche del Medio Oriente sta tentando di imbrogliarvi o di fare proseliti alla propria fazione. La verità è che l’intervento statunitense, sostenuto e partecipato attivamente anche dall’Unione Europea, partito per costruire un mondo nuovo, più equo e progressista, ha finito per destabilizzare un’area già in equilibrio precario, favorendo la nascita di mille fazioni e orientamenti religiosi. E l’Europa si trova pure lei, in un certo modo, sedotta e abbandonata dall’alleato. E molto più esposta se non al pericolo terrorismo almeno al maggior costo economico di gestire un flusso crescente di sfollati e richiedenti asilo politico. Armiamoci e partite, diceva quello.

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