Il problema del terrorismo caratterizza l’Italia repubblicana fin dalle sue origini, dalla strage di Portella della Ginestra, Palermo, 1 maggio 1947, passando poi per gli Anni di Piombo e gli attentati di stampo mafioso degli anni Novanta. Ma è il 2001 l’anno, con l’attacco alle Torri Gemelle di New York, che il terrorismo si colora di integralismo religioso e colpisce i Paesi dell’Europa: Spagna, Inghilterra, Germania e, a più riprese, la Francia. Le motivazioni dell’accanimento sono molteplici: un passato coloniale a fatica accantonato (si pensi alla terribile Guerra d’Algeria, 1954-1962), un consolidato canale di fornitura militare per Israele di aerei da caccia (i Mirage) e un senso della laicità dello Stato rivendicato senza incertezze.

E l’Italia? Negli ultimi vent’anni, anche per effetto di un cospicuo lavoro di intelligence preventiva, si contano due azioni: nel 2003 con l’esplosione suicida di un cittadino giordano di origine palestinese di fronte alla sinagoga di Modena (pare in crisi depressiva) e nel 2009 l’attacco alla caserma di Milano, ad opera di un libico considerato un “cane sciolto”. Come si può notare, atti al di fuori di una strategia coordinata. Non molto, in effetti. Perché?

Dal 1973 l’Italia ha trovato una sua forma di convivenza col fenomeno – scaricando la questione sul resto dell’Europa – con il cosiddetto “lodo Moro”, ovvero un accordo non scritto tra servizi segreti italiani, l’Eni, l’Olp palestinese e Stati del mondo islamico, rinnovato pare nel 1985 (così almeno affermano i diari di Arafat) dopo il dirottamento della nave “Achille Lauro”. Un accordo che, in cambio di pace sul territorio italiano, garantiva sia protezione agli autori di azioni terroristiche (si veda il caso Abū ʿAbbās) sia che il nostro Paese fosse, di fatto, una piattaforma di transito sicura. Rapporti che durarono in qualche forma anche dopo visto che, come scritto su mosaico-cem, «nel suo diario Arafat confermerebbe di aver mentito alle autorità italiane per aiutare Silvio Berlusconi a nascondere un finanziamento illecito di 10 miliardi di lire al Partito Socialista. Il leader palestinese disse infatti che la cifra era stata donata all’OLP per supportarne l’attività. Dopo questa sua dichiarazione – come si apprende dalle sue memorie – gli venne versata una somma di ringraziamento».

Quel tempo in cui i rapporti erano per lo meno poco trasparenti probabilmente è finito: i protagonisti di allora sono quasi tutti morti, Arafat compreso, e il mondo dopo il 2001 non ammette più, in teoria, posizione ambigue. Tuttavia, nonostante leggi specifiche a contrasto del terrorismo come la n. 438 del 2001, l’Italia viene ancora evidentemente ritenuta fondamentale via di passaggio (di sicuro lo era per la strategia di Al-Qaeda, ovvero di Osama Bin Laden): uno dei protagonisti del massacro di Madrid (2004) aveva trovato ospitalità a Milano; Osman Hussein, uno dei terroristi coinvolti nelle bombe di Londra (2005) ha cercato di nascondersi a Roma; gli attentatori in azione a Nizza nel 2016, al mercatino di Natale di Berlino nello stesso anno e di nuovo a Nizza nel 2020 sono tutti transitati da Lampedusa. Non è un caso che il recente summit del 10 novembre tra Francia, Austria, Germania, Paesi Bassi e Unione Europea a proposito della lotta al terrorismo non vedesse coinvolta l’Italia che, come visto, è la porta d’ingresso; non è un caso nemmeno che il presidente francese Emmanuel Macron sottolinei piuttosto la necessità di rivedere il Trattato di Schengen, ovvero la libera circolazione di persone all’interno dell’UE.

Per noi, un disastro. Perché, è evidente, se l’Italia decidesse di intervenire davvero per contrastare l’approdo e il passaggio dei terroristi sul nostro territorio dovrebbe rivedere l’attuale non politica sugli sbarchi e i flussi migratori: la scelta di collaborare con la Libia è fallita, specie ora che è contesa tra Francia e Turchia; la strategia mediatica di mostrare scarsa reattività nel soccorso dei naufragi non paga in termini di reputazione internazionale e non riesce comunque a spaventare i migranti; soprattutto, non riguarda i terroristi che hanno ben altre risorse rispetto ai migranti economici subsahariani.

Inesorabilmente, i nodi vengono al pettine: se l’Europa che conta limiterà sostanzialmente il transito dall’Italia (e dalla Grecia) verso il Nord Europa, l’Italia si troverà senza valvole di sfogo per l’immigrazione e non sarebbe più ritenuta un’utile base logistica; di contro, se per rassicurare l’Europa si impegnasse in un contrasto deciso e concreto del terrorismo, smettendo di essere neutrale terra di transito, diventerebbe un necessario – e comodo – obiettivo proprio per il terrorismo che ora si sfoga altrove. E non basterà, come fatto finora, adottare la tecnica di sopravvivenza dell’opossum, ovvero fingersi morti per disinnescare il pericolo; la resa dei conti, anche nel tempo sospeso del Coronavirus, s’approssima inesorabile.

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