Nel meraviglioso mondo dei social, gli utenti si dividono in tifoserie tra i candidati alla presidenza USA, anticipano verdetti assoluti tra Trump e Biden, acclamano vincitori e vinti come se fossimo tutti fini politologi e Pagnoncelli fatti in casa.

Da sempre la politica americana è nelle mani di una ristretta élite, dinastie che si tramandano potere e influenza nei secoli. E diciamolo, per una volta forte e chiaro: sono tutti uguali. Perseguono il fine proprio molto più attentamente di quello pubblico, puntano ad arricchire sé stessi e la claque che li ha sostenuti fin lassù, fanno favori e pretendono favori come il più italico degli arraffoni.

A noi nel Belpaese non importava che vincesse la signora Clinton o il signor Trump quattro anni fa, figuriamoci ora che abbiamo visto con i nostri occhi che i danni collaterali da “scarso acume” sono tutto sommato contenibili dall’entourage che smussa e reindirizza tutte le decisioni del Presidente.

Trump è la prova provata che si può essere maleducati e sessisti, si può sorridere mentre si minaccia di morte interi Paesi, si può sfangarla perfino commettendo illeciti, scorrettezze e improntando la propria campagna elettorale sulle fake news, o post-verità – come si definiscono ora per edulcorare la supposta. Si può fare tutto questo e non lasciare danni irreparabili.

Proviamo a pensare agli scenari che ci aspettano, in attesa che si contino anche le schede che devono ancora arrivare nei distretti elettorali. Accogliendo la tesi di Ian Bremmer, politologo della New York University, secondo il quale «che vinca Trump o Biden, cambia (molto) il metodo, meno la sostanza», è chiaro che Roma non è più uno snodo geopolitico del Mediterraneo, sostituita nel ruolo – Libia docet – dalla Francia.

Una rielezione di Trump cambierebbe poco o nulla per il nostro governo, che pure non lo apprezza particolarmente: dovranno fare buon viso, ma in questo son maestri. Avessimo un Orbàn premier, come in Ungheria, le cose sarebbero ben diverse, ma con la pandemia sembra si sia estinta anche la spinta populista internazionale. Uno o l’altro, quindi, l’Italia per il futuro presidente degli USA non esiste che sulla cartina.

Barak Obama e Joe Biden

Biden sarebbe meno volatile e più cauto nelle esternazioni, ha l’esperienza maturata con Obama e sa cosa vuol dire gioco di squadra. Ma le sue decisioni, in tema ad esempio di tassazione europea sui giganti USA non sarebbero certo diverse da quelle di Trump: con modi diplomatici, forse, ma alla fine difenderebbe le sue aziende.

Se vediamo Trump come una parentesi inusuale della politica americana, una vittoria di Biden sarebbe un ritorno alla normalità, che riporterebbe sobrietà e professionalità al cosiddetto Deep State, cioè tutti quei dipartimenti fondamentali per il funzionamento dello Stato federale che, tra scandali, licenziamenti, dimissioni e litigi, si trovano ad aver perso spessore.

Si tratta di aspettare ancora un pochino, finché tutti i voti degli americani registrati saranno stati conteggiati. La pandemia ha complicato una situazione che già in passato aveva fatto alzare più di un sopracciglio: il contorto sistema elettorale americano mostra limiti che prima o poi dovranno essere affrontati. Se uno non vale uno e se solo metà della popolazione in età per votare effettivamente lo fa, qualcosa deve essere rivisto.

Altro che “governo del popolo, dal popolo e per il popolo”, come gli americani amano definire la propria democrazia: nel 2016, su dati del Pew Research Institute, in America vivevano 245,5 milioni di persone con almeno 18 anni; di queste, solo 157,6 milioni erano registrate e votarono in 136,8 milioni. Il 55,7% è una percentuale che colloca gli USA agli ultimi posti tra gli stati OCSE democratici. Mentre Trump lancia accuse di frode elettorale come un dittatore di Bananas qualsiasi, ci sono milioni di cittadini che non riescono ad esercitare un diritto. Gente cui viene rifiutata la registrazione per una multa non pagata, o per un’omonimia con un condannato; mille documenti da presentare che scoraggiano giovani e minoranze.

Donald Trump

Senza contare la paura di intimidazioni, in alcuni Stati più che in altri: d’altra parte, quando Trump avrebbe dovuto dissociarsi dai suprematisti bianchi, è riuscito soltanto a chiedere ai Proud Boys di «stand back and stand by», gergo militare interpretabile come un «non fate niente ma pronti a tutto».

Quest’anno qualcosa è cambiato, con il voto anticipato e postale che ha tolto la centralità usuale all’Election Day. Più di 100 milioni di voti sono già stati espressi, prima del 3 novembre, circa tre quarti del totale delle elezioni 2016. Nel timore che l’urna diventasse un mega focolaio di Covid-19 sono 41 gli Stati che hanno offerto aperture anticipate dei seggi.

Il voto postale poi, che esiste da sempre, è considerato metodo principe in una decina di Stati, con schede elettorali inviate di default a casa delle persone e da restituire nelle modalità prescritte; sono stimati in circa 65 milioni i voti postali, altro lavorone per i poveri scrutatori. Nuovi metodi di voto, l’allentamento dei criteri per la registrazione e una moltitudine di tutorial sui social per imparare a navigare l’iter burocratico, hanno contribuito a quella che potrebbe essere l’elezione più partecipata della storia americana.

Sono tornati i giovani 18-29, con numeri che non si vedevano dal 2008, spinti anche dai movimenti di protesta degli ultimi tempi. Sulla stampa si dà risalto alle lunghe file di votanti sotto la pioggia, a gente di tutte le tonalità dal bianco al nero come puntini di una linea che svolta l’angolo degli edifici; sono diventati famosi per la loro gioia nel poter votare due vecchietti di oltre 100 anni ciascuno che intrattenevano la coda con canzoni popolari.

Sembra tornata la passione per la democrazia, nonostante i numerosi tentativi degli ultimi mesi, da parte repubblicana, di sminuire il voto, di rallentare o mettere in dubbio il voto postale.

Sicuramente i Padri fondatori non avevano in mente seggi elettorali nelle palestre o in modalità drive-thru come per l’hamburger, ma non è che le avessero beccate proprio tutte sul futuro della “Nazione dei coraggiosi”. Basti pensare che non li sfiorava l’idea che un giorno persone non bianche avrebbero votato – e sarebbero state elette.

Mentre negli USA si contendono l’ultima scheda, a noi forse farebbe bene meditare sulle nostre, di disgrazie politiche. Sul perché ci lamentiamo sempre di un “governo che non ci rappresenta” (se va bene) oppure “non eletto da nessuno” (quando va molto male) e poi, quando siamo davvero chiamati alle urne troviamo di meglio da fare, ché dai, fanno le elezioni sempre in primavera e la voglia di andare al mare batte quella di esprimere un voto.

Le ultime elezioni politiche in Italia si sono tenute il 4 marzo 2018, in seguito allo scioglimento delle Camere da parte del Presidente Mattarella, leggermente in anticipo rispetto a fine legislatura. Furono ammessi i candidati di 41 liste – mica Rep vs. Dem – e la coalizione più votata fu quella di centrodestra, con solo il 37% dei voti, mentre la lista singola vincente fu il Movimento 5 Stelle con il 32% dei voti. L’affluenza fu di poco inferiore al 73%, in calo di oltre due punti rispetto al 2013 e la più bassa della storia repubblicana dal 1948. Eh no, come direbbe Vasco Rossi, non siamo mica gli americani, che loro possono sparare agli indiani.