Non è una novità dell’ultima tornata elettorale: sono anni che, in Italia, sembra che nessuno abbia più voglia di fare il sindaco.

L’anno scorso, sulle colonne del Corriere della Sera il sindaco di Bari e presidente dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, Antonio Decaro, aveva scritto una lettera ai “non candidati”: «So bene il perché non volete candidarvi. Non volete farlo perché qualsiasi cosa accada nel vostro Comune sarà vostra responsabilità. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che ogni firma che metterete in calce a un provvedimento è un potenziale avviso di garanzia. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che per i cittadini se un ospedale non funziona, se aumentano gli scippi, se la gente getta i rifiuti per strada, se piove, se fa troppo caldo, se la squadra cittadina retrocede è sempre e solo colpa del sindaco».

E se nelle grandi e medie città, alla fine, i candidati si trovano, nei piccoli Comuni il trend è quello del fuggi-fuggi: spesso i cittadini trovano sulla scheda elettorale una sola lista; a volte addirittura nemmeno quella, con la conseguente nomina di un commissario per mancanza di contendenti. Perché la fascia tricolore non è più un traguardo ambito?

Pochi poteri e grandi responsabilità

Poteri limitati, debiti ingenti, funzioni gestionali sempre maggiori, responsabilità ampie e stipendi modesti: se a ciò aggiungiamo, da un punto di vista culturale, il declino costante della politica che non riesce più a risultare attraente (e anzi, essendo vista con sospetto dal cittadino, spesso si aggrappa a candidati civici), il quadro della situazione è già al completo.
Al giorno d’oggi, per gestire quello che ai cittadini interessa e poter effettivamente incidere sulla qualità della vita, la legge riconosce agli amministratori locali poteri e fondi limitatissimi. Per contro, nel corso del loro mandato i sindaci sono costantemente esposti a responsabilità (senza contare gli attacchi sui social da parte dei cittadini malcontenti).

Casse vuote

I Comuni italiani in dissesto finanziario non sono pochi. Secondo l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, nel 2021 si è raggiunto il secondo numero più alto di Comuni che hanno fatto ricorso alle procedure per gli enti in difficoltà finanziaria: in totale, quasi il 5 per cento degli enti risulta in dissesto o predissesto, con una netta prevalenza dei Comuni del Mezzogiorno.

Amministrazioni senza soldi, indebitate e con buchi di bilancio, che non riescono più a garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili come la manutenzione delle strade o il riscaldamento a scuola.

Da Parma a Lodi: la lunga scia dei sindaci finiti in tribunale

Quello del sindaco è quindi un mestiere complicato, con molte responsabilità che non di rado possono esporre a contestazioni giudiziarie a cui rispondere in prima persona. E, rispetto ai parlamentari e ai membri del Governo (per quanto si tratti di funzioni del tutto diverse), in assenza di meccanismi di tutela. La cronaca è piena di casi.

A Crema, l’ex sindaca Stefania Bonaldi era stata iscritta nel registro degli indagati (e poi archiviata) perché all’asilo un bimbo si era schiacciato due dita della mano sinistra nella porta tagliafuoco di un asilo nido comunale.

Massimo Giordano, da sindaco di Novara nel 2011 si era ritrovato indagato per corruzione e concussione, per non aver preso provvedimenti contro gli schiamazzi notturni di un bar. Indagine che lo aveva portato poi a dimettersi da assessore regionale. Lo scorso 11 novembre, dopo più di dieci anni, Giordano è stato assolto dalla Corte d’Appello, che ha confermato la sentenza di assoluzione di primo grado.

Il recordman per le accuse di abuso d’ufficio è Federico Pizzarotti, ex sindaco di Parma: è stato indagato per sei volte e assolto in tutte le occasioni. A gennaio è stato rinviato a giudizio per truffa ai danni dello Stato e falsità ideologica assieme all’ex dg del Teatro Regio di Parma e al presidente dell’Orchestra Filarmonica Italiana: al centro dell’inchiesta sono finite due rappresentazioni liriche al teatro di Busseto, relativamente alle quali sarebbe stato dichiarato – per ottenere i contributi ministeriali – un numero di orchestrali superiore a quelli realmente utilizzati.

L’ex primo cittadino di Lodi, Simone Uggetti, è stato coinvolto in una lunga vicenda giudiziaria che lo aveva visto finire agli arresti nel 2016 con l’accusa di aver favorito una società in un bando per la gestione di due piscine comunali. Condannato in primo grado a dieci mesi di reclusione per turbativa d’asta, Uggetti era poi stato assolto dalla Corte d’Appello nel 2021 “perché il fatto non sussiste”. La scorsa primavera, la Cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado e imposto la revisione del processo.

Il caso più recente? Quello del sindaco di Rivarolo Canavese, Alberto Rostagno, condannato dal Tribunale di Ivrea a un anno di carcere per la morte di un uomo in un sottopasso cittadino allagato durante un temporale.

Il caso Appendino e l’appello dell’Anci

Lo scorso gennaio, la sindaca di Torino Chiara Appendino è stata condannata a un anno e sei mesi (pena sospesa) per i disordini avvenuti il 3 giugno 2017, durante la finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid, che portarono al ferimento di oltre 1.600 persone e alla morte di due donne. Appendino è stata riconosciuta colpevole di disastro, omicidio e lesioni colpose. Attualmente è in corso il processo di secondo grado.

Dopo la condanna di Appendino, l’Anci aveva promosso un appello al Parlamento – sottoscritto da più di mille amministratori – per la revisione del Testo unico degli Enti Locali, affinché le norme sulla responsabilità dei sindaci siano più eque e rispettose delle differenze tra il livello gestionale e quello dell’indirizzo politico. «Possono i sindaci rispondere personalmente e penalmente di valutazioni non ascrivibili alle loro competenze? Possono i sindaci continuare a essere i capri espiatori, le uniche istituzioni sulle quali si scarica il peso di scelte dalle enormi responsabilità?», si chiedevano i sindaci firmatari.

Il reato di abuso d’ufficio

«Ogni volta che un sindaco firma un atto rischia di commettere un abuso d’ufficio. Se non firma, rischia l’omissione di atti d’ufficio», dichiarò dopo il caso di Crema il presidente dell’Anci, Antonio Decaro.

L’articolo 323 del codice penale è l’incubo più grande degli amministratori locali, di tutti gli schieramenti politici: prevede la reclusione da uno a quattro anni per «il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto».

La definizione del reato, secondo molti, rimane troppo ampia e lascia grossi margini di interpretazione. La sezione campana dell’Anci, nel 2021, aveva chiesto al Governo Draghi di modificare il reato per renderlo meno vago e indeterminato, definendo con maggiore precisione le condotte che potrebbero portare all’incriminazione.

Altrimenti, il rischio sottolineato da molti è quello di un abuso di tale fattispecie da parte delle Procure, che possono utilizzare l’abuso d’ufficio come grimaldello nelle indagini contro la Pubblica Amministrazione: «una sorta di “mandato a cercare” eventuali irregolarità o illiceità nella amministrazione pubblica, a prescindere da ben definite e chiare notizie di reato», evidenzia Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane.
L’altro reato a cui faceva riferimento Decaro è l’omissione di atti d’ufficio (articolo 328 del codice penale), anch’esso punito con la reclusione.

La paura di firmare (e di non firmare)

Assumersi delle responsabilità in buona fede e finire nel registro degli indagati, magari per un vizio di forma o per una responsabilità indiretta. «Siamo al paradosso che un amministratore rischia sia se firma un atto, per abuso d’ufficio, sia se non lo firma, per omissione», osserva il primo cittadino di Firenze, Dario Nardella, in una recente intervista a Il Messaggero. Il rischio è che si crei una cultura difensiva, col terrore costante della firma che rallenta l’azione amministrativa, fino a paralizzarla.

Secondo l’Anci, dal 2008 al 2019 sono stati 150 i pubblici ufficiali condannati per abuso d’ufficio, ma rispetto al totale delle accuse per questa fattispecie, quelle che portano a una condanna definitiva sono davvero poche: circa il 90 per cento dei casi si risolve in assoluzioni o archiviazioni. Quello che resta, in questi casi, è l’impatto sulla vita degli amministratori ingiustamente accusati.

Le aperture di Meloni e Nordio

Sembra che gli appelli dei sindaci verranno ascoltati dal governo Meloni, che si prepara a una nuova riforma (la quinta in trentadue anni) del reato di abuso d’ufficio. Lo scorso 24 novembre, alla XXXIX assemblea annuale dell’Anci, la Presidente del Consiglio ha confermato l’impegno, già appuntato nel programma del centrodestra. E sul tema, venerdì scorso il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha incontrato i sindaci in via Arenula.

Anche in Parlamento sembra ampio il fronte a favore di un intervento di riforma.
E si parla anche di un restyling alla legge Severino – la cui totale abolizione mediante referendum è fallita pochi mesi fa – che prevede l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per parlamentari, rappresentanti di governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali che abbiano avuto una condanna definitiva per una serie di reati gravi contro la pubblica amministrazione. Per gli amministratori locali il regime è più rigoroso: basta anche una condanna non definitiva per l’attuazione della sospensione.

Quanto guadagnano i sindaci?

A fronte di questa situazione, fino a pochi mesi fa i primi cittadini non potevano nemmeno contare su un’indennità adeguata: negli anni, il riconoscimento economico dei sindaci – stabilito dalla legge a scaglioni in base al numero di abitanti – è sempre stato sottoposto a tagli, risultando di fatto particolarmente basso, soprattutto nei piccoli Comuni, in rapporto alle responsabilità demandate dalla legge.

Basti pensare che, fino all’ultima legge di bilancio, per il sindaco di un Comune con un massimo di mille abitanti si prevedeva un’indennità di circa 1.200 euro lordi, che fu ridotta del 10 per cento con la legge finanziaria per il 2006, passando a 1.080 euro lordi. Senza contare che il compenso è dimezzato per i sindaci che mantengono anche un altro lavoro dipendente, circostanza frequente soprattutto nei piccoli borghi. Ma anche nei grossi Comuni, comunque, lo stipendio di un sindaco rimane inferiore – ad esempio – a quello dei parlamentari e dei membri del Governo.

Un cambio di rotta c’è stato quest’anno, con il Governo Draghi che ha aumentato considerevolmente le indennità degli amministratori locali, arrivando in alcuni casi a raddoppiarle. La nuova norma prevede che l’indennità del sindaco sia parametrata al trattamento economico complessivo dei presidenti delle regioni, in proporzione alla popolazione e alle funzioni ricoperte dal Comune.

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