A maggio il Comitato nazionale vini del Mipaaf ha approvato la proposta di modifica del disciplinare di produzione della Doc Prosecco per l’introduzione della tipologia rosé. Si potrà infatti vinificare in rosso, invece che in bianco, il pinot nero (fino al 15%) già previsto da anni tra le uve consentite nel disciplinare della Doc, in aggiunta alla glera, il principale vitigno del Prosecco – che dovrà comunque essere presente al minimo per l’85%.

Da mercoledì scorso l’iter del Prosecco Rosé si è concluso: oltre che poterlo produrre si potrà anche venderlo all’estero, con l’obbligo della dicitura Millesimato accanto all’anno di produzione.

Di sicuro una novità importante per il mondo dei vini rosa italiani, visto che il Prosecco Rosé sembra proiettato a fare da volano all’intera categoria, raddoppiandone, tanto per cominciare, il volume nazionale – sono previste infatti 18 milioni di bottiglie di Prosecco Rosé per il 2020 che vanno ad aggiungersi ai 20 milioni di imbottigliato della produzione media annua italiana di vini rosati.

Ma le polemiche sono state molteplici, tra chi difende la tradizione e la vede solo come mera operazione commerciale a vantaggio dei produttori industriali, con il rischio di creare ulteriore confusione, là dove per chi fa Docg è già difficile trasmettere la differenza qualitativa con la Doc, e chi invece la vede come carta vincente per essere per una volta “davanti ai francesi” con una tipologia, il rosé, che peraltro era già ampiamente diffusa e presente sul territorio prosecchista, ma senza l’ufficialità della certificazione Doc.

Enrico Bortolomiol, neoeletto Gran Maestro
della Confraternita di Valdobbiadene

Abbiamo chiesto un’opinione in merito a Enrico Bortolomiol, produttore e Gran Maestro della Confraternita di Valdobbiadene, la storica istituzione nata nell’immediato dopoguerra per vigilare e promuovere la storia e la tradizione del Prosecco di maggior qualità: quello prodotto sulle colline della zona di Conegliano di Valdobbiadene che, insieme a quella di Asolo, è una delle due Docg del Prosecco.

Anche se le denominazioni Valdobbiadene e Asolo non contemplano la produzione di rosé, come è stata presa l’introduzione di questa nuova tipologia per il Prosecco della zona Doc che vi circonda? Ci saranno delle ripercussioni positive o negative nella percezione del Prosecco in generale?

«Con l’introduzione in Gazzetta Ufficiale Ue di questa tipologia, il Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg ha tenuto subito a precisare che “Prosecco” è un grande nome che racchiude al suo interno diverse denominazioni, territori e caratteristiche. La vasta area della Doc comprende l’intero territorio delle province di Belluno, Padova, Treviso, Venezia, Vicenza in Veneto e Gorizia, Pordenone, Trieste e Udine in Friuli Venezia Giulia, mentre le due Docg sono esclusivamente a Valdobbiadene e ad Asolo. La denominazione Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg, che viene prodotta solo sulle colline di 15 comuni dell’Alta Marca Trevigiana, riconosciute lo scorso anno Patrimonio Unesco, non farà vini rosa: qui infatti non è nemmeno presente il pinot nero. Non è però un fenomeno passato inosservato nemmeno a noi, visto che in qualche modo va a influire sul nome Prosecco. Forse saremo un po’ “puristi”, ma in Docg non è stata presa in modo molto favorevole».

Come mai?

«Personalmente il mio timore è un ulteriore rischio di perseguire uno scopo commerciale a discapito della qualità. Si tratta pur sempre di un vino da taglio, quindi fatto con l’unione di due vitigni, uno rosso e uno bianco, in metodo charmat. Forse per un rosato da pinot nero posso immaginare di coglierne i pregi più in una vinificazione in rosa con metodo classico, ma fondamentalmente ritengo che questa operazione possa snaturare in qualche modo l’importanza e la centralità del vitigno glera».

Le scoscese pendenze del Cartizze, il celebre “cru” nel cuore della Valdobbiadene

Ha già percepito un impatto sul territorio dell’arrivo di questa novità?

«Il mercato, soprattutto estero, sta già chiedendo masse di Prosecco Rosé. I fornitori e i produttori di materiali per il packaging mi dicono che c’è stata una reazione pazzesca: un produttore di capsule, per fare un esempio, mi ha detto che gli stanno arrivando ordini di 400-500 mila capsule rosa da un giorno all’altro. Sembra proprio che sia esploso un fenomeno. Basti pensare che sembra siano già state “vendute”, ancor prima di arrivare sul mercato, 18 milioni di bottiglie. E per il 2021 si parla di raddoppiare. Numeri che vanno al di là di ogni previsione ma, nemmeno a dirlo, ancor prima di arrivare in vendita, tutti parlano già di “qualità eccezionale”. Qualche perplessità viene».

Non potrebbe essere un volano, in generale, sia per il Veneto che per gli altri produttori di vini rosati italiani?

«Posto il fatto che si tratta puramente di un’operazione commerciale, può essere sì una cosa positiva, soprattutto per chi lavora con l’estero, visto che il mercato dell’HoReCa, causa Covid-19, è praticamente immobile. Però ritengo che al momento stia favorendo esclusivamente quei quattro maggiori produttori industriali che hanno appunto una rete molto estesa nella grande distribuzione estera. Di piccoli produttori che fanno Prosecco Rosé devo ancora vederne, sul mercato. Quanto all’effetto volano sugli altri rosati italiani staremo a guardare: se fosse solo il nome Prosecco il motivo di appeal, non è detto che possa essere così d’aiuto per altre denominazioni. Vedremo cosa succederà».


Alla firma in Gazzetta Ufficiale Ue la reazione di Coldiretti è stata positiva, definendo il Prosecco Rosé un “arricchimento” per il mercato del vino italiano più esportato al mondo, così come quella di Unione italiana vini, il cui segretario generale Paolo Castelletti pensa possa rappresentare il futuro driver mondiale della tipologia “sparkling rosé”; ritiene infatti si tratti di un prodotto che condensa in un unico vino le potenzialità di due grandi fenomeni mondiali degli ultimi anni: da una parte gli spumanti, che dal 2002 sono passati da 2 a 3 miliardi di bottiglie consumate nel mondo, e dall’altra i vini rosati, che hanno registrato un incremento di 600 milioni di bottiglie (da 2,2 a 2,8 miliardi).

Tra i maggiori sostenitori del “fenomeno rosa” del vino italiano e voce sempre presente nel dibattito di questi mesi dalle pagine del suo blog The Internet Gourmet, il giornalista ed esperto di comunicazione Angelo Peretti ci ha raccontato perché l’Italia, invece che litigare e discutere su operazioni commerciali o tradizioni perdute, ha di fronte un’opportunità incredibile che non deve lasciarsi sfuggire: posizionarsi (per una volta, finalmente) davanti alla Francia del vino.

L’internet gourmet Angelo Peretti, ideatore
di Rosautoctono

Peretti, lei è tra i fondatori dell’Istituto del Vino Rosa Autoctono Italiano, Rosautoctono, e quando si parla di rosé, anzi di “vini rosa” come ama chiamarli, è sempre in prima linea nel dibattito italiano. Che vantaggi può portare questa modifica del disciplinare nel lungo periodo?

«In questi ultimi anni ho concorso alla diffusione della cultura del vino rosato partendo dal mio territorio, quello del Bardolino Chiaretto, ma coinvolgendo nel tempo le principali e storiche realtà produttive italiane di rosati: Valtènesi Chiaretto, Cerasuolo d’Abruzzo, Castel del Monte Bombino Nero e Castel del Monte Rosato, Salice Salentino Rosato, Cirò Rosato. Per la prima volta si è creata una realtà pluriregionale che va dal Veneto, alla Lombardia, all’Abruzzo fino alla Puglia e la Calabria, e che si muove con un obiettivo comune, orientato alla diffusione, all’estero e in Italia, della conoscenza e della cultura del vino rosa italiano».

Perché “vino rosa” e non “rosato”, per i vini rosé italiani?

«Il termine è stato coniato da Luigi Cataldi Madonna, ma l’ho trovato subito perfetto per il nostro obiettivo. Il motivo è presto detto: era determinante trovare un nome che ci definisse in modo semplice ed immediato anche per il mercato estero. Il termine “rosé”, ovviamente, rincorre i nostri colleghi d’Oltralpe, mentre “rosato”, all’estero, è percepito come frazione di nomi di nostre denominazioni – pensiamo a Salice Salentino Rosato Doc o Cirò Rosato Doc. Bisognava trovare una parola nuova, che ci individuasse in modo diretto, ed è una soddisfazione vedere che il termine sta funzionando, soprattutto negli Stati Uniti, dove utilizzano proprio la definizione italiana “vino rosa”, senza tradurla. Facciamo quasi più fatica ad utilizzarla qui in Italia».

Quindi l’arrivo del Prosecco Rosé amplificherà il movimento dei vini rosa in un’ottica estera?

«Esatto, io lo vedo come un traino straordinario per tutto il movimento rosa italiano ma non solo, anche per il Veneto e, con una veduta più ampia, per la stessa Italia che si trova nella storica posizione di poter essere davanti alla Francia in una fetta di mercato non da poco.

Due dei 18 milioni di sfumature di rosé

Quanto alle questioni sollevate durante questi mesi, non riesco davvero a capire quale possa essere il problema per i produttori che non si vedono d’accordo su questa modifica del disciplinare: da sempre la produzione si adatta al mercato, e sarebbe sciocco non valutare che la crescita della richiesta dei vini rosati nel 2019 è cresciuta globalmente del 16%, e il prezzo delle uve di Provenza è raddoppiato in soli 5 anni.

C’è inoltre chi si lamenta della presenza di un vitigno internazionale, ma il pinot nero, come altri vitigni, è da anni presente nel disciplinare del Prosecco; si tratta solo di vinificarlo in nero piuttosto che in bianco, senza contare che la presenza di uno spumante rosé di pinot nero in zona Prosecco era già attestata nel 1880. Quale sarebbe dunque il problema con la tradizione?

Quanto alla questione di ottenere un vino rosato da “taglio” (ovvero unendo un vitigno rosso e uno bianco per creare un rosé) come ben sappiamo è una pratica vietata in Europa. Eccetto per una deroga: la spumantistica. Dallo Champagne al Franciacorta, passando per l’Oltrepò Pavese e il TrentoDoc, si tratta sempre di spumanti d’assemblaggio di uve e, anche senza pensare al metodo classico, sono diversi i rosé charmat italiani che stanno ottenendo importanti riconoscimenti internazionali. Quindi gli esempi di qualità non mancano».

Questa operazione non rischia di premiare solo la denominazione Prosecco e non gli altri spumanti rosati italiani?

«Sicuramente li premierà, ne sono convinto. Una delle cose che noi italiani tendiamo a dimenticarci, è che il colore è un elemento essenziale del vino rosa. Lo si beve, infatti, per prima cosa per il suo colore. Secondo, per il suo stile, ovvero la sua tipologia identitaria, la tipicità che gli conferiscono le uve di quel territorio particolare. Il colore comunque rimane la prima caratteristica in assoluto.

Il vino rosa è da valutare con parametri completamente diversi da quelli che si usano per il vino bianco e il vino rosso, e intendiamoci: il rosa non deve essere per forza rosa chiaro, ma un rosa identitario delle uve del territorio. Si pensi alla tonalità intensa del Cerasuolo, per dire. Il problema è che qui in Italia, pur avendo una tradizione antichissima di rosati, dai chiaretti d’epoca romana ai palmenti del sud di origine greca, li abbiamo sempre considerati un “di meno”. C’è come una sorta di barriera psicologica che invece il Prosecco Rosé può aiutarci a superare».

Qual è il vantaggio competitivo di questi vini con la Francia?

«La produzione di rosati in Italia fino ad ora si attestava sui 20 milioni, ovvero circa 10 milioni per il Bardolino Chiaretto, 6 milioni di Cerasuolo, 1,5 milioni per il Valtenesi e Cirò, 1 milione circa le due denominazioni Pugliesi, cui si aggiungono i restanti rosé italiani.

Il Prosecco Rosé ci permette di raddoppiare – e siamo solo al primo anno – i volumi di vino rosa italiano disponibili sul mercato. Nello specifico, calcolando i 10 milioni del Chiaretto, rende il Veneto regione leader di mercato in Italia, tanto da poter competere in prospettiva con dei volumi significativi con i nostri cugini francesi.

La Francia, infatti, per il rosé ha una massa critica importante su due aree geografiche in particolare: Provenza e Languedoc Roussillon, che producono rispettivamente 140 e 240 milioni circa. Noi in Italia questi quantitativi per regione ce li sogniamo, ma la nostra carta vincente è che siamo già leader di settore nelle bollicine grazie allo charmat, e né Provenza né Languedoc hanno in alcuno dei loro disciplinari la possibilità di fare spumanti: i loro rosè sono vini fermi. Anzi, questa possibilità ce la invidiano, e stanno facendo di tutto per poterla consentire sul loro territorio.

Uno scorcio di altre sfumature provenzali

Supponendo che ci riescano, arriverebbero sempre e comunque dopo. Aggiungiamo a questo il fatto che noi per lo charmat siamo già avanti per tecnica ed esperienza: il metodo Martinotti o charmat, infatti, è principalmente italiano, ha costi e tempi inferiori e le bottiglie sono da subito disponibili sul mercato, al contrario dei metodo classico francesi (i rosé spumanti francesi sono infatti Champagne e Crémant, tutti metodo champenoise, nda).

Non riesco a comprendere perché i produttori veneti non capiscano che questa è una straordinaria occasione per la loro regione: diventerebbe l’unico territorio non francese in grado di competere con i francesi per volumi sul vino rosa, e non è affatto poco. Il mondo del vino infatti è fatto anche di volumi, non solo di poesia.

Bisogna poi guardare in prospettiva: arriveranno anche i produttori più piccoli, senza dubbio, in questa fetta di mercato. Sono convinto che ci sarà la corsa per fare Prosecco Rosé e che nel tempo sicuramente emergerà chi lavora meglio degli altri».