«Il reddito di cittadinanza ha contribuito a far aumentare la mancanza di manodopera qualificata» , affermava qualche giorno fa il Ministro dell’Interno Matteo Salvini che rilanciava le perplessità di Confindustria che considera il reddito di cittadinanza troppo generoso. Secondo questa tesi, i giovani – grazie all’assegno percepito e fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle – preferirebbero starsene sul divano a poltrire piuttosto che cercarsi un lavoro. Ovvio quindi domandarsi se la verità sia davvero questa.

Una scena di “Trainspotting”

Partiamo da una fatto banale, ma mai sottolineato abbastanza: quasi nessuno fa veramente il lavoro che gli piace e quasi nessuno – in generale – va volentieri al lavoro.

Il reddito di cittadinanza è troppo alto, dice Confindustria. Davvero? “L’importo varia in base a molti parametri […]: negli esempi indicati dal Governo, una persona che vive sola avrà fino a 780 euro al mese di Reddito di cittadinanza; e poi fino a 1.330 euro al mese per una famiglia composta da due adulti e un figlio maggiorenne o due minorenni.” In 3, magari 4, con (fino a) 1300 euro, tolti affitto e bollette, ci si campa? Uno che vive da solo, tolto affitto e bollette, può adagiarsi con (fino a) 780? Non scherziamo.

“Oliver Twist”

Non è che, allora, il vero problema non è il lavoro ma lo stipendio che viene offerto? Qualche tempo fa si segnalava la mancanza di lavoratori stagionali sulla Riviera Romagnola. Ecco, i soliti sfaticati, che non accettano contratti che si basano sul “nero” e su uno sfruttamento da far impallidire Oliver Twist: 6,40 euro l’ora, tutele e diritti sulla carta ma non nella realtà. Oppure, si ricercano ingegneri trilingue a 600 euro al mese con la sua solita truffa dello stage.

Ma per un giovane, alla fine, il lavoro c’è? Quota 100, secondo l’omniministro Salvini, avrebbe fatto spazio ai giovani. Anzi, diceva ben di più: “Abbiamo calcolato che il diritto alla pensione di un 62enne, faccio una cifra a caso, vale un posto di lavoro e mezzo in più per un giovane”. Chissà chi glieli ha fatti i conti, perché in realtà per avere un nuovo assunto ci vogliono ben tre pensionamenti. Di fatto, le aziende hanno così ristrutturato (alias “tagliato”) senza dover licenziare. Quindi, a ben guardare, non c’è vera fame di lavoratori, ma di alcune categorie specifiche di professionisti. Il vero problema, alla fine, risulta essere il disallineamento che esiste in Italia tra offerta e domanda.

Il ruolo dell’istruzione. Ci dice l’Istat che la licealizzazione della popolazione scolastica ha creato un bacino di lavoratori sovraistruiti e spesso sovraqualificati, in conflitto di fatto con un mondo del lavoro italiano che – non innovando più da decenni – ha bisogno di lavoratori formati dalle scuole professionali. Questo è avvenuto per vari fattori: il discredito del lavoro manuale nella scuola di stampo gentiliano e nell’ambizione di affermazione e riscatto sociale delle famiglie, il decadimento del livello di istruzione che rende il liceo alla portata di tutti; in più, gli istituti professionali hanno bisogno di laboratori e personale dedicato e i laboratori costano.

Il problema esiste. Ma non è corretto scaricarlo sui giovani, perché è da attribuire al sistema economico italiano, alla direzione presa dall’istruzione pubblica. Un problema di scelte a monte, quindi – in definitiva – da attribuire alla politica. Invece di voler raddrizzare la schiena ai giovani col servizio militare (che, parliamoci chiaro, non raddrizza un bel niente), o costringendoli ad accettare l’inaccettabile (affamandoli con la cancellazione del welfare), proviamo a dare ai nostri ragazzi responsabilità, stipendi e non mancette.