L’infelice uscita su twitter del Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, ovvero che gli anziani sarebbero «persone che sono per fortuna per lo più in pensione, non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese ma essendo più fragili vanno tutelate in ogni modo», ci dimostra quanto sia importante avere degli addetti alla comunicazione di qualità. Ma questo è un problema minore e riguarda la carriera di Toti.

Molto più rilevante lo sdegno sui social che, in genere, è tanto più forte quanto una società ha la coda di paglia, perché il problema è lì e non è ignorabile: la gestione dell’epidemia sta affossando un’economia che già da tempo è sull’orlo del fallimento e che, per ora, stiamo contenendo raschiando il fondo del barile, facendo debito e aspettando soldi (sovrastimati anche se sostanziosi) in prestito dall’UE. Detto in soldoni: la parte anziana della nazione è quella più a rischio per il Covid ma le attuali scelte di contenimento dell’epidemia, che non diversificano in base al rischio e alle necessità del sistema, stanno pesando in maniera forse letale sul futuro della nazione e dei giovani italiani.

L’Italia soffriva prima, lo dicono i dati: l’ultimo boom del debito avviene nel 2007 (proprio quando eravamo giunti al 99,68% del PIL) a causa dello scoppio della bolla dei subprime e del mercato immobiliare americano; il debito pubblico lievita a 2.579 miliardi ad agosto 2020 (record), complice l’epidemia. Soffre ora lo Stato, a maggior ragione, per il peso pensionistico e un crescente impegno assistenziale che incide sulle scelte in tema di sanità: secondo l’Ufficio statistico dell’Ue (Eurostat), nel 2016 l’Italia ha speso il 16,1 per cento del suo Pil in spesa pensionistica (oltre 270 miliardi di euro) arrivando al 16,6 nel 2018; sempre nel 2018, il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale è ammontato a 105,7 miliardi di euro, anche per effetto del reddito di cittadinanza.

Ora, se parliamo di pure proiezioni economiche, secondo il Rapporto 2019. Think Tank Welfare Italia (p.7), «Il 2065 sarà il D-DAY demografico italiano, quando la popolazione in età inattiva (over-65) sarà superiore a quella in età attiva (15-65 anni). Le dinamiche economiche, inoltre, proiettano il raddoppio dei costi attuali in Long Term Care e 5,7 milioni di nuovi poveri si andranno ad aggiungere a quelli attuali.» E questo – va detto – prima dello scoppio della pandemia, il che significa che le proiezioni sulle entrate in termini di tassazione sono assolutamente falsate.

A questo dobbiamo aggiungere – e le manifestazioni di questi giorni nazionali e locali ce lo testimoniano – le difficoltà del ceto legato all’impresa privata che con limitazioni orarie, lockdown parziali o totali vede a rischio il proprio sostentamento. E se non si hanno i soldi per l’affitto o il cibo, difficilmente ci saranno quelli per le tasse. A maggio 2020 si segnalava il 50% in meno di nuove attività rispetto al 2019 e il 40% delle microimprese era a rischio chiusura; rischio, oggi, parzialmente temperato da forme di sospensione del pagamento delle imposte con i decreti-legge “Cura Italia”, “Liquidità”, “Rilancio”, “Agosto” e “DL n. 129/2020” e dal blocco del licenziamento fino al 21 marzo. Ma è evidente che, se le tasse non vengono raccolte e aziende e lavoratori vengono supportati dallo Stato con sussidi vari, con la primavera avremo una clamorosa voragine nelle finanze pubbliche. La prospettiva di una rimodulazione del capitalismo in senso umano, come auspicato da Lorenzo Fabiano, è prospettiva molto, molto lontana e tanto più necessaria quanto improbabile.

Nel frattempo, la percezione del disagio e della precarietà del sistema è diffusa e amplificata dalla stampa; il livello di empatia a causa dello stress crolla pericolosamente. Non è un caso che si stia imponendo una narrazione che vede i sostenitori delle restrizioni in tema di epidemia tacciati di essere dipendenti statali (e quindi a stipendio fisso), parassiti e indifferenti rispetto al presunto “mondo reale” dell’impresa privata e di vivere in una bolla di privilegio che scoppierà certamente subito dopo il crollo del settore privato.

Insomma, dopo gli scienziati militari cinesi, i cinesi e basta e gli statali, gli anziani, in tutto questo, possono potenzialmente diventare il prossimo nemico sociale o, perlomeno, quello più sacrificabile (a partire dai parenti degli altri, s’intende). Lo sdegno seguito alla dichiarazione di Toti indica che il sentimento comune è di tutela per gli anziani e per i deboli. Ma è pure evidente che la gestione di questa crisi sarà cruciale anche e soprattutto per ciò che rimarrà – in termini sociali ed economici – alla sua conclusione.

Il rischio, concreto, è che all’Italia si presenti un futuro prossimo sul modello greco (tabula rasa del welfare, tagli al settore pubblico, privatizzazioni, acquisizioni di rami di impresa da Stati più in salute) e per di più divisa al suo interno tra lavoratori del privato contro i dipendenti pubblici, giovani (pochi) contro anziani (tanti), sinistri alieni e populisti cazzari, gomblottisti contro nazigrammar e via dicendo. Un paese atomizzato in tribù che combattono tra loro in mezzo le macerie.

Per evitare il punto di non ritorno, la proposta di molti, Toti compreso, di immaginare forme di contrasto all’epidemia che permettano la sopravvivenza di un tessuto economico ha un senso. Come tuttavia sottolineava dalle colonne di questo giornale Mario Alberti Marchi, mai come ora è necessario, in un clima così teso e paranoico, lavorare di cesello con le proprie dichiarazioni; portare all’estremo virtuosismo l’arte dell’ipocrisia, che è il sangue della politica. E magari pretendere dalla politica che, per una volta, cominci a ragionare su un orizzonte temporale che non sia di solo qualche mese perché, alla fine, il conto arriva sempre.