La mattina del 27 settembre, Armenia e Azerbaijan sono tornati a confrontarsi militarmente nell’ormai trentennale conflitto per il Nagorno-Karabakh. Gli scontri, che hanno causato almeno 30 vittime, tra le quali un numero imprecisato di civili, seguono di poco i combattimenti avvenuti lo scorso luglio, facendo presagire una pericolosa spirale di violenza che richiede un intervento deciso da parte della comunità internazionale. Ben trentamila persone, peraltro, sono già morte durante la guerra in corso nella regione fin dagli Anni Novanta, quando i due Stati erano ancora repubbliche sovietiche.

Quello tra l’Armenia e l’Azerbaijan è un conflitto le cui origini risalgono all’epoca del collasso dell’Unione Sovietica: sono decenni che i due paesi litigano per la regione di confine del Nagorno-Karabakh, che a livello internazionale è riconosciuta come parte dell’Azerbaijan, ma che è sempre stata a maggioranza armena e controllata dalle forze etniche militari di Erevan. Ufficialmente la guerra iniziò nel 1991, all’indomani dello scioglimento dell’URSS, e terminò nel 1994 con un “cessate il fuoco”, ventimila vittime e un milione di sfollati, ma lungo il confine della regione i combattimenti non sono mai finiti. 

Il Nagorno-Karabakh è rimasto da allora un cosiddetto “Stato de facto”, con reciproche accuse tra i due paesi confinanti su chi sia stato l’ultimo a innescare i bombardamenti con l’artiglieria e gli attacchi coi droni nella zona nord della regione. Un conflitto “congelato”, che però nei giorni scorsi si è riacceso con una violenza che non si vedeva da tempo. 

Risulta complicato comprendere a fondo le reali intenzioni dei governi dei due Paesi, che si confrontano praticamente solo sulla base di uno scambio reciproco di accuse di sabotaggio dei negoziati condotti dal cosiddetto Gruppo di Minsk (una commissione creata nel 1992 dalla Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata dopo la guerra del Nagorno-Karabakh e di cui sono co-presidenti Russia, Stati Uniti e Francia, nda).

Quel che appare evidente, invece, è che, al contrario dell’Azerbaijan, l’Armenia ha avviato nel 2018 con la cosiddetta “Rivoluzione di velluto”, quello che può definirsi un processo di democratizzazione senza precedenti per il paese. Leader del movimento fu il principale oppositore del governo, l’ex giornalista Nikol Pashinyan. Le proteste scoppiarono in seguito alla terza nomina consecutiva di Serž Sargsyan alla carica di primo ministro della repubblica caucasica, il quale, il 23 aprile 2018 fu costretto a rassegnare le proprie dimissioni. L’8 maggio dello stesso anno Nikol Pashinyan venne eletto Primo Ministro e da allora l’Armenia ha intrapreso una serie di coraggiose riforme che la portano a rivolgere sempre di più lo sguardo verso l’Europa e l’Occidente, pur persistendo all’interno del Paese resistenze a questo cambiamento in senso progressista. 

Simone Zoppellaro

Al contrario, secondo l’opinione del giornalista per l’East Journal e grande esperto di Armenia e Caucaso Simone Zoppellaro, “l’Azerbaijan è tuttora una dittatura, non è uno Stato democratico, ma ha più soldi, influenza e risorse rispetto all’Armenia”. L’Azerbaijan ha inoltre l’appoggio dichiarato della vicina Turchia, che a livello militare è uno dei paesi più temuti nell’area. I due popoli si ritengono, infatti, “fratelli”, tanto che i turchi dicono degli azeri “siamo due stati ma un’unica nazione”. C’è, oltre la prossimità geografica, anche un’affinità linguistica e culturale che li unisce da sempre. Il presidente turco Recep Erdogan, durante la settantaquattresima sessione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2019, aveva dichiarato: «È importante per il nostro futuro che il Caucaso meridionale diventi un’area pacificata, è inaccettabile che l’area del Nagorno-Karabakh e le zone circostanti, di pertinenza dell’Azerbaijan, siano ancora occupate nonostante le risoluzioni adottate.» Ieri, alla BBC, lo stesso Erdogan ha ribadito l’appoggio incondizionato all’Azerbaijan, mentre gli osservatori internazionali notano un surplus di aggressività da parte della Turchia, già occupata militarmente in Siria, Libano e nel Mediterraneo orientale.

E mentre la Russia temporeggia nel porsi come mediatore del conflitto, in virtù dei buoni rapporti che intrattiene con entrambe le sue ex colonie, l’altro potente vicino nell’area, l’Iran, si schiera con l’Armenia, scatenando il malcontento degli iraniani di origine azera. Si calcola, infatti, che il numero di azeri in Iran sia di gran lunga superiore a quelli che vivono nella Repubblica dell’Azerbaigian, che ha una popolazione di 10 milioni di abitanti. Attualmente, non ci sono dati sul numero di azeri che vivono in questo paese, ma l’Encyclopedia of the Stateless Nations (Enciclopedia delle Nazioni senza Stato) nel 2002 stimava che il numero di azeri in Iran si aggirasse intorno alle 18.500.000 persone, ossia pari a circa un quarto della popolazione dell’Iran.

Alla recente ripresa delle ostilità il Presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev ha sospeso dal suo incarico il ministro degli esteri, accusandolo di inefficacia nelle negoziazioni con l’Armenia. A luglio, una folla di manifestanti a Baku, capitale dell’Azerbaijan, chiedeva al governo azero di dichiarare guerra all’Armenia. L’Azerbaijan ha poi accusato il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, di sabotare i colloqui di pace presieduti dal Gruppo di Minsk dell’OSCE. Ma a fine luglio il Ministro degli Esteri armeno Zohrab Mnatsakanyan ha dichiarato ad Al-Jazeera che la de-escalation era la priorità: «La guerra non è un’alternativa. Non c’è alcuna alternativa alla soluzione pacifica per la quale restiamo impegnati, e per ristabilire una situazione che aiuti la pace e favorisca il buon esito del processo di negoziazione della pace.» Questa è infatti la maggiore escalation di violenza dal 2016, quando un conflitto a fuoco durato quattro giorni provocò la morte di circa 200 persone, tra militari e civili. All’epoca, Russia e Iran si offrirono di mediare, ma la Turchia si schierò apertamente con l’Azerbaijan. Quindi, a meno che i nuovi combattimenti non vengano sospesi, il rischio di un conflitto più ampio è reale.

Giorgio Comai

Nel corso di una diretta radiofonica il 28 settembre scorso Giorgio Comai, ricercatore e data analyst presso l’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, ha spiegato: «Appare chiaro che da parte armena vi sia tutto l’interesse a mantenere lo status quo, mentre da parte azera l’interesse è di riconquistare quelle aree. Ci sono dinamiche di breve e lungo periodo che hanno portato a questa nuova emergenza nel conflitto. Per molti anni all’Azerbaijan è convenuto “aspettare”, perché i prezzi alti di gas e petrolio permettevano al Paese di diventare sempre più ricco e poter così fornire più risorse al Ministero della Difesa e avere di conseguenza più forza militare, mentre da parte armena conveniva comunque attendere per rafforzare le proprie posizioni nella regione e renderle più solide. Oggi, visti i vari fallimenti dei negoziati internazionali, la linea azera si sente legittimata a intervenire perché il prezzo di gas e petrolio è nel frattempo calato e la crisi economica unita all’emergenza Covid-19 hanno accresciuto nella popolazione azera un sentimento nazionalista e militarista, sempre più diffuso. L’OSCE è senza leadership e le elezioni in USA di novembre portano l’attenzione internazionale altrove. L’unica possibilità di risoluzione è che l’Azerbaijan si accontenti di una piccola vittoria da poter rivendicare in patria e l’Armenia accetti di perdere una piccola parte del suo territorio. In questo modo la Russia potrebbe forse riuscire a mediare.» 

I nuovi scontri tra Armenia e Azerbaigian in Nagorno Karabakh toccano anche gli interessi dell’Italia, primo partner commerciale europeo dell’Azerbaijan. Baku è infatti il primo fornitore di petrolio di Roma, particolare che influirà inevitabilmente sulla posizione italiana a seguito dell’inasprimento del conflitto nel Caucaso meridionale. Proprio da Baku parte infatti il TAP, la condotta di gas naturale che dovrebbe poi sbucare in Salento, lungo la zona fino a oggi incontaminata di San Foca (fin dall’inizio, la popolazione salentina si è opposta al progetto e tuttora lotta per contrastarlo, nda) passando da Albania, Grecia, Turchia, Georgia e, appunto, Azerbaigian: un percorso tortuoso, voluto proprio per evitare il passaggio del condotto nel territorio armeno, dove le influenze russe sugli idrocarburi sono dominanti. Inoltre, secondo un’indagine de “l’Espresso”, industrie militari israeliane e russe avrebbero versato più di 180 milioni di dollari alle società offshore del regime di Baku, le stesse che pagavano politici e lobbisti per il via libera europeo alla mega-conduttura TAP. Sul piatto della bilancia, gli interessi economici potrebbero dunque avere un peso maggiore rispetto ai tradizionali rapporti politici tra Italia e Armenia, e nonostante la presenza di molte aziende italiane nel Paese, il volume d’affari non è paragonabile a quello dell’Italia con l’Azerbaijan.

In sostanza, l’attendismo dell’Europa, della Russia e dei paesi confinanti con l’area del Nagorno-Karabakh pare essere più legato a questioni economiche che politiche, come spesso avviene nei conflitti che interessano aree geografiche chiave per l’approvvigionamento energetico. Per questo è fondamentale un intervento della comunità internazionale che metta al primo posto l’interesse delle due popolazioni, quella armena e quella azera, nel giungere ad una pacificazione di quello che appare ormai un conflitto senza fine.