Elena e Nicolae Ceausescu

Son passati trent’anni. Era il dicembre del 1989, e la traballante Europa comunista perdeva pezzi uno dopo l’altro, come gli effetti di un domino. Il 21 dicembre fu la volta della Romania. Ben visto dall’Occidente per le sue posizioni autonome da Mosca (nel 1984 la Romania non aderì al boicottaggio del blocco comunista alla Olimpiadi Los Angeles), nei primi anni ottanta il regime rumeno aveva ottenuto un prestito di 13 miliardi di dollari per finanziare programmi di sviluppo economico; il risultato fu però che questi prestiti finirono per causare il dissesto finanziario del paese. Nel 1989 il popolo rumeno era stremato da provvedimenti tesi a ridurre l’enorme debito accumulato quali il razionamento del cibo, la riduzione del riscaldamento domestico a 13°C, la penuria di benzina, le interruzioni di corrente elettrica.

La piazza della rivolta

Il presidente Nicolae Ceausescu aveva fatto passare un plebiscito che vietava alla Romania di contrarre qualsiasi forma di debito estero. Ordinò quindi la completa esportazione della produzione industriale e agricola. I rumeni per anni si piegarono confidando che la scure delle misure draconiane fosse un sacrificio necessario e temporaneo. Non sarebbe stato così. E la misura era ora colma. Da giorni i minatori di Timisoara erano in agitazione e marciavano minacciosi verso la capitale. A Bucarest “il Conducatòr” era al potere da ventidue anni di pugno di ferro e di terrore imposti anche grazie all’ausilio dei tentacoli della sua Securitate, la polizia segreta. Ceausescu che, mentre il popolo era ridotto alla fame, viveva insieme a moglie e figli in una sorta di enclave dorata, non capì la gravità della situazione: di fronte ai deliri di onnipotenza di una famiglia presidenziale trasformatasi in un’avida dinastia regia distaccata dalla realtà, la via alla democrazia passò allora dalla piazza forcaiola. E fu rivoluzione.

Di fronte a una folla che per la prima volta gli mostrò in faccia il dissenso, “il Conducator” (ma ormai di chi…???) si affrettò a tenere un comizio farneticante ricevendone in cambio la pesante contestazione di un popolo che inneggiava alla rivolta. Scoppiati i tumulti, compreso che tirava brutta aria, Ceausescu e la moglie Elena si misero in fuga. Ma era troppo tardi. Catturati, furono sottoposti a un processo sommario di nemmeno un’ora in cui vennero riconosciuti colpevoli dei reati di crimini contro lo Stato, genocidio e distruzione dell’economia nazionale. Furono poi entrambi giustiziati in diretta televisiva secondo le regole fai da te del dente per dente. Ion Iliescu divenne il primo presidente della Romania post comunista.

Tifosi veronesi a Bucarest

La morsa brutale in cui Ceausescu teneva Romania, mi era capitato di vederla con i miei occhi e toccarla due anni prima, quando giovane studente di Giurisprudenza a Bologna con la passione per la l’Hellas Verona, mi recai a Bucarest a seguire Elkjaer e compagni nel terzo turno di Coppa Uefa ospiti del modesto Sportul Studentesc. La città era avvolta nella neve e nel gelo. Vidi una popolazione ridotta allo stremo, condannata alla miseria, con i segni della rassegnazione tracciati sul volto. Sguardi bassi, dimessi; e tanti silenzi. Rumorosissimi.

Ci prelevarono all’aeroporto, e dopo minuziose e assurde perquisizioni ci condussero in un ristorante per turisti del centro, dove faceva un freddo cane. Ne chiedemmo il motivo: riscaldamento razionato, ci dissero. Ci avevano messo a disposizione una guida, un ragazzo di nome Ioan che aveva tre lauree e parlava un perfetto italiano. Era intimorito: negli occhi gli si leggeva la paura. Di fronte alle nostre insistenti domande ci confidò che gli agenti della Securitate (la temutissima polizia segreta del regime) erano dappertutto. Un passo falso e sarebbero stati per lui guai seri. Quella era gente che ci andava pesante e di sconti mica ne faceva. Io e altri due entrammo allora in un negozio per stranieri; gli comprammo un dopobarba che gli lasciammo nel bagno del ristorante. Ci congedammo da lui in questo modo.

Il peggio doveva, però, ancora venire: il Verona aveva vinto e passato il turno, ma nessuno di noi aveva voglia di festeggiare. Finita la partita, nel gelo siberiano fuori dallo stadio gruppi di ragazzini ci chiesero di tutto; gli demmo quello che avevamo: sigarette, cioccolata, gomme da masticare, sciarpe gialloblù. Ci sentivamo come gli americani al loro arrivo a Verona nei giorni della liberazione. Solo che qui non era affatto una festa. La polizia inveì su quei ragazzini colpendoli a bastonate con i manganelli di legno: «Ma perché?» ci chiedemmo. Guai ad accettare doni dai corrotti capitalisti occidentali. Questa era la loro colpa. Inorridimmo di fronte a quella bestialità, ma non ci potemmo fare nulla. Tornai a casa con la tristezza nel cuore. Avevo visto cos’era il Comunismo. E non lo avrei mai più dimenticato.