Domenica 23 agosto è caduta su Verona la quinta bomba d’acqua in pochi mesi, ma quest’ultima è stata molto diversa dalle precedenti: un downburst, che consiste in forti raffiche di vento discensionali con moto orizzontale in uscita dal fronte avanzante del temporale. Le folate hanno raggiunto velocità importanti, superiori ai cento chilometri orari.

La conta dei danni a strade, case e attività commerciali non lascia dubbi sul carattere particolarmente violento del nubifragio, ma parlare di evento eccezionale risulta ormai quantomeno ingenuo: le conseguenze del cambiamento climatico in atto sono qualcosa di cui dobbiamo prendere coscienza, agendo di conseguenza.

Anche deviare il corso del Fiume Adige dopo la piena del 1882 non fu però evidentemente una scelta felice, soprattutto per il quartiere di Veronetta. Per la sua morfologia fu sostanziale la soppressione dell’Isolo, costituito dai due rami dell’Adige che si formavano tra Santa Maria in Organo e San Tomaso. Il canale venne interrato e trasformato in una strada, e l’area situata davanti a Santa Maria in Organo fu liberata dalle strutture industriali e trasformata in una piazza, l’attuale Piazza Isolo.

Il problema è che l’acqua del fiume non ha mai smesso di cercare di seguire il suo corso naturale, ed è questo uno dei grandi motivi per cui la rete fognaria del quartiere va in tilt a ogni pioggia anomala. Andrebbero quantomeno ampliati i collettori, ma i costi in termini economici e di disagio per la popolazione sarebbero tali che nessuna amministrazione finora ha voluto affrontare il problema in maniera radicale.

Via Sant’Alessio. (Foto di Marina Sorina)

Lo stesso vale per Sant’Alessio, le cui fotografie di un residente con l’acqua all’altezza delle spalle durante il nubifragio hanno fatto il giro del mondo (ne abbiamo raccontato in questo articolo). Ridurre l’alveo del fiume e asfaltare, rendendo così il terreno impermeabile, fa sì che la pioggia non venga sufficientemente drenata dal terreno ma si accumuli in superficie. Il 23 agosto è scesa in 15 minuti la quantità di pioggia che cade mediamente in un mese: difficile, se non impossibile, evitarne le conseguenze.

Quello che invece si sarebbe potuto prevedere è lo sradicamento e il successivo crollo dei quasi 700 alberi che sono stati spazzati via nei quartieri più colpiti: Veronetta, Borgo Venezia, Torricelle e Valpantena.

Alcuni di questi, come il cipresso di Goethe all’interno di Giardino Giusti, che per cinque secoli ha accolto i visitatori da tutto il mondo (nella foto di copertina di Lisa Accordi), o i cipressi che accompagnavano la salita di Via Caroto verso le Torricelle, hanno lasciato un vero e proprio vuoto affettivo tra i veronesi.

Ma facciamo un passo indietro. «Occorre diffondere il senso, l’amore del bosco, fonte di freschezza spirituale e fisica». Siamo nel 1922 e a parlare è Arnaldo Mussolini, fratello del Duce e studioso agrario di grande sensibilità ecologica. Nominato presidente del Comitato Nazionale Forestale, nel giornale “Il Bosco” Arnaldo Mussolini scriveva che «in Italia si deve generalizzare un nuovo convincimento, che io vorrei definire il culto dell’albero, ponendo il problema di educazione civile e di rispetto verso gli alberi».

Il regime predispone dunque la creazione in ogni Comune d’Italia di un cosiddetto Bosco del Littorio, e istituisce la Festa del Bosco da celebrare il 28 ottobre, anniversario della Marcia su Roma. Fino a quel momento, la maggior parte dei terreni intorno alle città erano improduttivi oppure destinati ad agricoltura e pastorizia. Di boschi veri e propri se ne vedevano pochi.

L’invito a salvaguardare le aree verdi e a potenziare il patrimonio boschivo fin dentro le città viene accolto con entusiasmo dagli amministratori pubblici e dalla popolazione. Verona, data la sua conformazione geografico-urbanistica, già nel 1924 decide di vincolare la collina sovrastante la città e tutte le zone verdi interne ed esterne alle mura magistrali che la cingono.

La festa annuale degli alberi verrà dedicata per alcuni anni all’«abbellimento boschivo sulla cinta bastionata della città». Quella celebrata il 12 novembre 1926 vede la messa a dimora di 2.000 piante nel bastione di Porta Vescovo. Molti sono cipressi.

I cipressi caduti in Via Caroto.
(Foto di Lisa Accordi)

L’intento, di per sé lodevole, non fu però supportato dalla solidità delle competenze tecniche e scientifiche del caso. Verona poggia quasi interamente su terreno di riporto, composto dai detriti bellici delle guerre mondiali e dai sassi e dal materiale ghiaioso portati dal fiume Adige. Ora, il cipresso ha un apparato radicale che esige lo sviluppo in profondità per potersi aggrappare saldamente, condizione pressoché introvabile in città.

Ecco perché i cipressi di Via Caroto non hanno retto alla furia delle raffiche di vento del 23 agosto e nella parte bassa della strada sono stati sradicati praticamente tutti.

Anche lo sradicamento del cedro dell’Himalaya in Piazzetta San Tomaso è avvenuto per gli stessi motivi: se pianti in un clima mediterraneo e su un terreno sabbioso un’essenza che normalmente cresce a tremila metri di altitudine in zone climaticamente più fredde, quell’albero soffrirà inevitabilmente di gigantismo della chioma rispetto all’apparato radicale. E con raffiche di vento a cento chilometri orari non reggerà, semplicemente perché quello non era il suo posto.

Ce lo spiega meglio il paesaggista Alberto Ballestriero, membro dell’Aiap (Associazione italiana di architettura del paesaggio) e socio fondatore dell’Osservatorio territoriale Veronapolis:

«Il problema è che in passato si è abusato di certe essenze, del tutto inadatte al nostro territorio, perché avevano il pregio di crescere in fretta e dare risultati esteticamente apprezzabili.

Siamo arrivati addirittura a piantumare essenze esotiche in centro storico, come il cedro dell’Himalaya, quando per qualunque albero è già fisiologicamente difficilissimo crescere in un contesto urbano. Per questo tipo di essenza, che necessità di radicarsi in profondità, non c’è terreno peggiore. Infatti abbiamo notato tutti la dimensione stranamente ridotta degli apparati radicali degli alberi caduti domenica: il motivo è che non potevano svilupparsi correttamente perché mancavano a priori le condizioni geologiche. Lo stesso vale per i tigli di cui sono pieni i lungadige della città: sono stati piantati a distanza troppo ravvicinata perché sia loro garantito il corretto sviluppo dell’apparato radicale, e il risultato è che loro crescono troppo in altezza, fanno vela con il vento e danno problemi di stabilità.

Dobbiamo piantare essenze più basse e frondose. Inoltre, a Verona abbiamo poche aree verdi sulle quali si piantumano troppi alberi. Ma che senso ha collocare centinaia di alberi che non riusciranno a svilupparsi correttamente? In Piazzetta San Nicolò ultimamente sono stati introdotti quattro platani. Abbiamo presenti le dimensioni cui può arrivare un platano? Come possono trovare il giusto spazio quattro alberi del genere, nelle dimensioni ridotte di quella piazzetta?

Il cedro dell’Himalaya sradicato in Piaazzetta San Tomaso.
(Foto di Lusa Accordi)

Ci sono stati anni in cui si è piantumato senza un criterio scientifico, e oggi i nodi vengono al pettine. Un po’ come quando nel 1948, nell’ambito del macroscopico cantiere di rimboschimento delle Torricelle, venne scelto il pino nero come specie prevalente. Le condizioni non erano adatte all’essenza, e da lì si sviluppò il problema della processionaria che prima non avevamo (terribile parassita delle piante che può diventare pericoloso anche per l’uomo e gli animali, nda)».

Nel 2018 è stata istituita a Verona una commissione composta da tecnici, ambientalisti, rappresentati di Amia e delle associazioni di categoria, per varare il cosiddetto Regolamento sul verde, ovvero una serie di norme destinate a mettere ordine nella deficitaria pianificazione urbana del verde della città riguardo alle potature, agli impianti e alle specie più adatte da piantumare. Alberto Ballestriero fa parte di questa commissione.

«Il Regolamento sul verde è un primo passo, ma il suo limite è che non interviene dal punto di vista urbanistico della pianificazione. Dice solo che il verde esistente ha bisogno di una normativa.

Per la parte urbanistica è necessario invece il cosiddetto Piano del Verde, che è l’unico strumento in grado di dare un futuro al verde di Verona.

Sono anni che lo chiedo, ma le amministrazioni non ne vogliono sentir parlare perché questo porrebbe dei limiti all’espansione edilizia della città, quindi non lo vogliono.»

Anche Marco Magnano, dirigente del settore Aree verdi di Amia, sostiene che «sarebbe auspicabile un piano per la ripiantumazione che tenga conto dell’insegnamento del disastro del 23 agosto. Va necessariamente fatta un’accurata analisi scientifica delle essenze in grado di crescere correttamente in città, e se è vero che all’epoca delle prime piantumazioni certi fenomeni climatici non erano così accentuati, oggi non possiamo non tenerne conto.»

I tecnici attendono il censimento delle piante cadute, i dettagli sul tipo di terreno e il monitoraggio di altri eventuali alberi a rischio, in vista di un prossimo incontro con l’amministrazione del sindaco Sboarina.

La volontà appare quella di fermarsi e riflettere su come procedere d’ora in poi, sulla base di criteri strettamente tecnico-scientifici, per garantire uno sviluppo duraturo del verde cittadino, ed è letteralmente una questione di vitale importanza, per tutti, nessuno escluso.