Charles Darwin ci ha fottuto. Il coronavirus è piombato a inquietare il presente e a rivoluzionare il “dopo”. Perché, intendiamoci, sul piano economico già oggi si consuma il dramma di aziende in ginocchio e dei loro lavoratori. E domani rischiano di rimanere in piedi in pochi.

“Perdiamo cento miliardi di Pil al mese” il grido di allarme del mondo delle imprese. E anche con la fine del lockdown (presumibilmente tra fine aprile e inizio maggio) l’economia non ritornerà subito a pieni giri. Serviranno mesi, forse un anno, un anno e mezzo, finché non c’è il vaccino, perché senza vaccino il virus non lo sconfiggi. Pensate allora al condizionamento psicologico della gente: tornerà a teatro, al cinema, al bar, allo stadio? Si prospettano tempi duri per turismo, cultura ed entertaimment. Inoltre siamo in un mondo globale e interdipendente: riapre un’azienda a Verona, ma il virus rimane a Brescia o a New York, che succede alla nostra azienda se all’interno della filiera lavora con Brescia e New York?

Insomma, se non ci sarà un robustissimo e continuo aiuto pubblico di Unione europea e Stati (altroché mercato, altroché mano invisibile di smithiana memoria), svariate aziende le serrande non le alzeranno più e qualche milione di posti di lavoro andrà in fumo. Nel qual caso, per moltissime persone sarà il buio totale. Ve lo vedete voi un 45-50enne, da vent’anni nella stessa azienda, che se la viveva sereno nella sua routine, riadattarsi e cambiare vita? Raccontatelo a lui che le crisi sono anche un’opportunità. Vi sacramenterà dietro. Come dargli torto.

Sapete quanti sono in quelle condizioni, cioè stanziali e statici, anche in Veneto, anche a Verona, in quello che chiamano (a torto, non è più così da almeno una decina di anni) il dinamico nord-est delle partite iva e del self made man? Anche da noi, dopo la crisi del 2008, si è cercato il posto fisso, la sicurezza, l’aperitivo delle 18. E chi la partita Iva nel frattempo se l’è fatta, difficilmente la può rivendicare come libera scelta. Ma il fenomeno dei tanti lavoratori “statici” era già in atto dagli anni 60-70 del boom, quando siamo diventati popolazione urbana e non più rurale. Qui migliaia di persone andrebbero nel panico assoluto (a ragione) nel perdere certezze.

E anche quegli autonomi pre-2008 – quando essendo sicuri dell’alternativa fissa, l’orizzonte di tanti era ancora lavorare per conto proprio, o quantomeno provarci – oggi artigiani e i commercianti di mezza età, faticheranno a ripartire. Lo faranno, per resilienza, orgoglio e mancanza di alternative (non sono ricconi), ma con quali guadagni?

Non è pessimismo (vorrei che lo fosse), è presa d’atto della realtà. Il benessere che abbiamo conosciuto, scordiamocelo. Ne vedremo di volti sulla strada in cerca di lavoro, reddito e nuove speranze.

Chi starà a galla allora? Sopravviveranno i precari, chi sa riadattarsi e non ha nulla da perdere già oggi. Per loro cambiare e ripartire, sul piano psicologico, non sarà un’apocalisse. Si salveranno gli artisti, i creativi, i brillanti gli individualisti, gli egocentrici. Terrà botta il talentuoso, che poco e tanto che sia l’offerta di mercato un posto lo trova sempre. Sapranno ripartire i grossi calibri, le aziende strutturate, i loro imprenditori e manager.

Perderanno invece quelli del ceto medio e basso garantito: i piccoli borghesi, quadri, impiegati, operai, artigiani, chi tiene bottega.

I sommersi e i salvati. Perché se il coronavirus è una livella, che infetta ricco o povero, le sue conseguenze sociali ed economiche non lo sono affatto. Ci attende, credo, un’inquietante selezione naturale.