Esiste un linguaggio iconografico della Storia che in certi momenti assume un ruolo determinante per la memoria collettiva. Così, se osserviamo l’opera Guernica di Pablo Picasso, ci sembra di “vedere” la guerra civile in Spagna. In modo ancora più immediato, guardando la foto diventata tristemente famosa che il fotografo dell’Associated Press Huynh Cong “Nick” scattò in Vietnam nel 1972 è come se quella bambina, ritratta mentre scappa dalle bombe al napalm nuda e disperata,
corresse verso di noi. E lo stesso accade con le immagini del crollo delle Torri Gemelle a New York l’11 settembre 2001, impresse nella memoria di tutti noi che, davanti alla tv, assistevamo increduli a qualcosa di inimmaginabile fino a quel momento. La storia ha bisogno di immagini, qualcosa che in un solo secondo riesca a catturare la nostra attenzione e focalizzarla sulla follia che spesso sta dietro l’agire umano: le immagini degli scoppi nel deposito chimico al porto di Beirut il 5 agosto 2020 hanno fornito al Libano quel momento. Il numero dei morti di oggi probabilmente non raggiunge quello di uno qualsiasi dei quotidiani bagni di sangue cui il paese fu costretto durante la guerra civile dal 1975 al 1990, e di cui la maggior parte sa poco e nulla. Il punto, dunque, non è la portata della tragedia, ma il fatto che le immagini di quelle nubi su Beirut non verranno mai più cancellate. E sarà molto più difficile d’ora in poi per il resto del mondo fingere che una rivoluzione del popolo in Libano non esista. Nessuno può sapere cosa accadrà adesso in un Paese già in default da marzo, devastato da un alto tasso di corruzione, in perenne balìa di Israele e di Hezbollah e connotato da un profondo settarismo religioso e sociale. Ma le nuove generazioni giovani e istruite possono e devono necessariamente acquisire nuova forza per destituire i loro governanti e cominciare a ricostruire uno stato laico e moderno, che esca finalmente dall’orbita dell’arroganza imperiale francese che dopo la Prima guerra mondiale lo ha consegnato al cinismo dell’intera Europa e del resto del Medio Oriente. Le proteste antigovernative in Libano erano infatti iniziate già il 17 ottobre 2019, dando il via a quella che viene comunemente chiamata dai libanesi “La rivoluzione d’ottobre”.
Nur Turkmani, giovane attivista del movimento, racconta: «Penso che il 17 ottobre 2019 sia una data che tutti quelli della mia generazione ricorderanno per sempre. Ricordo perfettamente il momento in cui la folla per strada cominciò a cantare «Ash-shab yurid isqat an-nizam», che in arabo significa che il popolo vuole abbattere il regime dello Stato. Ho guardato la mia coinquilina e le ho detto che avevo davvero molta paura di cantare quelle parole (che rappresentano lo slogan politico associato alla Primavera araba, nda), perché tutti noi avevamo creduto così profondamente nelle altre rivoluzioni e continuavamo a farlo, ma avevamo visto cos’era successo in Siria o in Yemen. C’era una paura palpabile, c’era un gruppo di giovani uomini a torso nudo che dava fuoco ad un gigantesco cartellone pubblicitario. Ma la verità è che ho sentito, e lo sento tuttora, che tutto questo ci stava semplicemente aspettando».

I manifestanti sono giovani e indipendenti, lontani dalla politica e dalle confessioni religiose. Da quel giorno, e per due mesi consecutivi, in centinaia di manifestazioni di piazza chiederanno al governo in carica di farsi da parte per lasciare spazio ad un governo tecnico qualificato, in grado di traghettare il paese fuori dalla drammatica crisi economica e costruire un sistema democratico. I giovani puntano il dito su quello che definiscono “il club” di politici, banchieri e businessmen i cui componenti sono, spesso, tuttora gli stessi dall’inizio della guerra civile che ha devastato il paese per 15 anni. Il Presidente in carica ad esempio, l’ex generale Michel Aoun, fu un protagonista di quegli anni, come del resto il suo principale oppositore cristiano, Samir Geagea, e come il presidente della Camera, Nabih Berri. Una vera e propria gerontocrazia confermata dall’età del presidente Aoun, 86 anni, e del suo omologo Berri, 83 anni. Le onnipresenti cariche della polizia durante le manifestazioni non spaventano i manifestanti, che a dicembre dello scorso anno ottengono le dimissioni del contestato primo ministro Saad Hariri, accusato dai libanesi di presiedere non un governo ma un comitato d’affari trasversale ai principali partiti al potere nel Paese. Al suo posto il 21 gennaio 2020 verrà nominato Hassan Diab, sostenuto dagli Hezbollah filoiraniani, dal partito sciita Amal e dal movimento del presidente Aoun, che ha la maggioranza in Parlamento. Anche Hezbollah dunque, forse per la prima volta nella sua storia, sembra temere i manifestanti e la portata della loro ribellione. E infatti la nomina di Diab non è servita a placare le proteste, che sono riprese più forti che mai lo scorso aprile dopo che nel distretto di Tripoli Fawaz Samman, un giovane manifestante, muore a causa delle ferite riportate negli scontri con la polizia. «Non era un terrorista, ma un affamato», grida la folla a Beirut. «Non abbiamo più nulla da perdere», «Tutto è caro, tranne il sangue del popolo». Nel mirino della Rivoluzione d’ottobre c’è anche il sistema patriarcale, tribale e confessionale che ha ridotto a sei le deputate, su un totale di 128. Dunque 122 deputati maschi nel Parlamento di un Paese che per il mondo arabo sarebbe il più paritario con le donne, ma che nel Global Gender Gap Index del 2018 si colloca al 140esimo posto su 149, una performance addirittura peggiore di quella del Kuwait.

In Libano, infatti, una donna non può dare la cittadinanza ai propri figli se il padre è straniero, ed è sottoposta alle varie leggi religiose per il diritto di famiglia e altri aspetti della sua vita privata. E i manifestanti hanno fatto propria anche la lotta per l’emancipazione femminile, ottenendo che per la prima volta l’inno nazionale venisse cantato pubblicamente parlando del loro Paese come patria di “uomini e donne”, non solo di uomini. Infine, dopo che a inizio marzo il primo ministro Diab dichiara di non essere in grado di pagare un debito di 1.200 milioni di dollari con l’Unione Europea, ufficializzando così di fatto il default dello Stato, la crisi ha investito in pieno anche il sistema bancario che fino a quel momento era strategico non solo per i libanesi, ma per l’intera regione. La moneta libanese a quel punto è in caduta libera, il numero di disoccupati cresce in maniera esponenziale, anche chi vive nei ricchi quartieri cristiani di Beirut non si vergogna più di andare a chiedere il cibo alle mense dei poveri. La tensione sociale nel paese era dunque già altissima ben prima dei terribili scoppi del 5 agosto. Ma questa volta, a differenza di quanto avvenuto in anni passati, i vertici delle principali Chiese cristiane sembrano apprezzare le intenzioni dei manifestanti e questo, forse, potrebbe cambiare il corso della storia. Certamente lo cambieranno le immagini di quegli scoppi, che hanno fatto il giro del mondo e che ora costringono chiunque a “vedere” veramente il Libano e il dramma del suo popolo. La speranza è che una tragedia come quella avvenuta al porto di Beirut possa trasformarsi nella spinta definitiva che darà alle nuove generazioni libanesi la forza di resistere, in un difficilissimo percorso di cambiamento.

«Pietà per la nazione il cui governante è una volpe, il filosofo un giocoliere, e la cui arte è l’arte del rattoppo e della parodia.»
(Khalil Gibran, poeta libanese)