Per Luca Zaia ora il titolo di “Doge” va stretto. E non solo perché il primo a fregiarsene dopo la caduta della Serenissima nel 1797 fu quel Giancarlo Galan, la cui carriera politica è stata travolta dagli scandali e dal malaffare. Zaia è il governatore che ha salvato il Veneto dalla pandemia, costruendosi l’immagine del saldo timoniere che guida il veliero fuori dalla tempesta.

Ha seguito i consigli scientifici del professor Andrea Crisanti, il quale gli aveva spiegato come il contenimento ospedaliero del virus fosse impossibile e che per contrastarlo si sarebbe dovuta mettere in atto una strategia “casa per casa” andando cioè a cercare uno a uno i vari focolai del contagio per metterli in sicurezza, facendo tamponi anche agli asintomatici.

La dimensione del leader si vede anche dalla capacità di scegliere e ascoltare i collaboratori giusti. Così, il Veneto è stato citato pure dai prestigiosi “Financial Times” e “New York Times” come la regione che ha saputo contenere il contagio con maggiore efficacia rispetto ai suoi vicini e quella che grazie all’alto livello dei suoi consulenti scientifici e all’ammontare delle risorse profuse nella lotta al virus era nella posizione migliore per influenzare il dibattito globale sul tema.

Zaia ora è il Veneto e il Veneto è Zaia. Come prima, più di prima. Ma non solo. Un recente sondaggio lo incorona come il politico più apprezzato in questa fase di emergenza, sopravanzando lo stesso premier Conte e staccando di varie lunghezze il suo stesso leader di partito Salvini, il quale lo tollera ma lo guarda con sospetto, fedele alla tradizione leninista della Lega, diffidente nei confronti di chiunque possa fare ombra al capo. Tanto è vero che il governatore non ha avuto nessuno dei suoi fedelissimi “Zaia Boys” tra i candidati alle scorse elezioni politiche.

Salvini sotto sotto gli preferirebbe il suo vicesegretario Lorenzo Fontana, l’ispiratore ideologico della svolta sovranista della Lega. Ma il vicesegretario è uomo di contemplazione più che di azione, e lui per primo forse si troverebbe a disagio in un incarico così operativo come la presidenza di una Regione importante come il Veneto, incarico che lo allontanerebbe dai suoi amati studi sul sistema istituzionale dell’impero Bizantino, i quali possono dare interessanti spunti per la progettazione dello Stato del XXI secolo.

Si avvicinano le elezioni regionali e come Ercole nel celebre dipinto di Annibale Carracci, Zaia si trova davanti a un bivio: se si ritira dalla corsa avrà un posto nella storia come il governatore che ha salvato il Veneto dalla pandemia. Se fa un altro giro, rischia di passarci come il governatore che del Veneto non ha saputo ottenere l’autonomia. I trionfi sono facili da esser dimenticati.

Infatti, al di là della retorica a uso e consumo del bacino di consensi storico della Lega, il suo stesso leader di partito non sembra stracciarsi le vesti per l’autonomia delle Regioni del Nord, che, se attuata sul serio – quindi con una gestione delle risorse finanziarie diretta da parte delle Regioni –, metterebbe in crisi il suo disegno volto a consolidare la Lega come partito nazionale che punta allo sfondamento al Sud. Mantenere le risorse al Nord significherebbe diminuire le risorse al Sud, e la legge della politica è chiara: niente risorse, niente consensi.

Però… c’è un però. Salvini durante la pandemia ha perso colpi, che si sono tradotti in un sensibile calo di consensi per la Lega. Non ha saputo comprendere che in tempi di emergenza e di paura è controproducente iniettare all’opinione pubblica ulteriori “overdose” di paura, ovvero usare la sua consueta strategia propagandistica. Salvini, insomma, non è riuscito a sfilarsi il battle dress del demagogo per infilarsi il completo blu del leader e il suo fallimento mediatico, in fondo, sta tutto qua.

Sempre più disperatamente alla ricerca di una strategia per tornare sotto i riflettori, si è ridotto ad attaccare Conte sui social per la sua capigliatura sempre in ordine o a proporre manifestazioni di piazza con le mascherine, senza pensare che con i tempi che corrono non sia esattamente un’idea brillante. Zaia al di là delle iniziali incertezze – ricordiamo i suoi capricci quando si parlò di chiudere tre province venete – non ha poi sbagliato un colpo. Tanto è vero che al calo di consensi della “Lega-Partito” corrisponde un aumento di quelli per “Zaia-leader”.

Nonostante le sue smentite di rito, in questo momento potrebbe aspirare a essere leader nazionale, con il non trascurabile vantaggio che non si è attorniato come Salvini da una pletora di economisti vodoo alla Bagnai o Borghi o di bancarottieri alla Siri o di euro diffidenti che propugnano ricette finanziarie da Circo Barnum dell’economia.

Gli uomini che stanno attorno a Zaia sono il cuore dell’imprenditoria veneta, pragmatici e solidi, diffidenti nei confronti di sciocchezze antieuro e che vedono la retorica antigermanica cavalcata dal leader della Lega per imbonirsi le masse sui social come fumo negli occhi, dato che la Germania per il Veneto è un partner commerciale e turistico fondamentale e di prima grandezza.

Basta farsi un giro sul Lago di Garda o a Verona, durante la Stagione lirica, per rendersi conto che in Veneto con la retorica antiteutonica non si riempiono i registratori di cassa. Inoltre Zaia, come stile, è lontano dai furori antieuropei e filorussi che fanno parte dell’armamentario propagandistico di Salvini, probabilmente per il fatto che gli uomini di cui si circonda sono i Crisanti dell’imprenditoria. Gente che sa benissimo che fuori dall’Euro l’Italia diventerebbe il Venezuela d’Europa.

Zaia, però, ha anche imparato bene la lezione che “non c’è mondo fuori dalla Lega”. Flavio Tosi, solo l’ultimo dei fuoriusciti finiti nel cono d’ombra, docet. Quindi se qualche cosa farà, sarà dall’interno della Lega, piuttosto che dall’esterno. Magari se qualche gruppo imprenditorial–mediatico gli garantisse la sua potenza di fuoco…. chissà…