Oggi in Libano è lutto nazionale. Quello che fino a ieri, martedì 4 agosto, poco prima delle 18 era l’ultima frontiera aperta della capitale Beirut verso il mondo, verso l’unica possibilità di import ed export attraverso il mare, dalle 18.08 è solo devastazione, detriti, vetri rotti (fino a più di 10 chilometri dall’epicentro dell’esplosione). Si contano centinaia di morti, migliaia di feriti che non hanno più un posto dove andare, ci si cura per strada fino a che «realmente qualcuno non arrivi a salvare e aiutare il Libano» mi spiega Ibrahim Kachab, ristoratore e attivista veronese ormai in città da 36 anni, che guarda con un misto di sentimenti il suo Paese natale.

Ibrahim Kachab, foto di Alice Silvestri

Ibrahim ha due sorelle a Beirut, lontane dall’epicentro, e fin dai primi momenti della deflagrazione ieri a tardo pomeriggio ha iniziato a ricevere nel suo gruppo Whatsapp, che lo tiene ancorato alle sue origini, video e immagini di uno dei più grandi disastri avvenuti nel Libano da quando si possa ricordare, un boato ancora nelle orecchie che sembra un terremoto. Oggi si sta facendo la conta dei danni, impossibile per ora da quantificare. «Sto leggendo tutto il possibile e sto scrivendo a tutte le persone vicine alla nostra famiglia – mi spiega Ibrahim dalla sua casa a Verona –. È impressionante lo sciacallaggio messo in moto dai primi momenti del disastro, in particolare sulle illazioni nei confronti delle tensioni che conosciamo bene tra Israele e le milizie filoiraniane di Hezbollah. Penso sia necessario asciugare prima il sangue dei nostri morti che iniziare con le analisi di cosa è davvero successo al porto di Beirut.»

Paese da sempre attraversato da flussi migratori (attualmente il Libano ospita quasi 2 milioni di profughi), vede in Italia circa 4.451 libanesi residenti (di cui il 37% donne, secondo il Dossier Statistico Immigrazione 2019 del Centro Studi Idos in partenariato con il Centro Studi Confronti). Per Ibrahim la svolta è coincisa con il 1982, l’anno dei mondiali di calcio e dell’invasione israeliana del Paese, che costrinse lui e la sua famiglia a scappare a Tiro. Era ormai pronto per l’università ma la situazione, dopo l’uccisione del presidente della Repubblica neoeletto Bashir Gemayel, iniziò a complicarsi come non era mai successo prima durante la guerra civile. In meno di un anno la parabola del Paese arrivò al tracollo, quindi la scelta fu obbligata. Andarsene. Un suo compagno di scuola studiava a Padova facendo il pendolare da Verona, così Ibrahim lo raggiunse nella città scaligera nell’agosto del 1984, senza avere altri contatti. Iniziò a studiare Ingegneria elettronica, trovando poi lavoro come programmatore informatico nell’ateneo scaligero e in alcune aziende. La svolta nella ristorazione è arrivata nel 2007 arrivando ad oggi, titolare di due ristoranti libanesi a Veronetta.

Ibrahim nella cucina del suo ristorante, foto di Alice Silvestri

«Quattordici anni fa la mia intenzione di lavorare nella ristorazione era tesa all’obiettivo di ricongiungermi con le mie sorelle ancora in Libano, per dare loro una possibilità in un campo, quello culinario, che poteva dare loro soddisfazione. La vita poi le ha fatte rimanere nel nostro Paese di nascita e io invece ho continuato con i miei ristoranti – mi racconta Ibrahim –. Come tutto il mondo il Libano è isolato per l’emergenza sanitaria, pensare che dai confini non ci si può certo muovere, a nord verso la Siria e a sud verso Israele, l’aeroporto è stato riaperto da poco ma è fonte di nuovi focolai visto che la sanità pubblica è pressoché inesistente e i controlli non ci sono. Se eravamo in ginocchio ora con questa esplosione nel porto che era la nostra finestra sul mondo sarà improbabile rialzarsi.»

Il capo delle forze di sicurezza nazionali, il generale Abbas Ibrahim, ha rilasciato la dichiarazione all’Ansa che la causa è un incendio sviluppatosi in un deposito usato per custodire materiali altamente infiammabili sequestrati in passato. Un video circolato sui social media mostra dapprima una colonna di fumo nero alzarsi nel cielo. Poi, in quelle che sembrano le fiamme di un incendio, alcune deflagrazioni minori. Infine, un’esplosione gigantesca che investe anche il balcone da cui vengono riprese le immagini, alcune centinaia di metri dal porto.

La Casa Bianca sta seguendo da vicino la situazione. Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, fa sapere che «l’Italia è vicina agli amici libanesi in questo momento tragico. I nostri pensieri vanno alle famiglie delle vittime, a cui esprimiamo il nostro profondo cordoglio, e alle persone ferite, a cui auguriamo una pronta guarigione». I militari italiani coinvolti nelle esplosioni, feriti e non, appartengono all’unità Joint Multimodal Operations Unit (Jmou di Beirut, inquadrata nel Comando Contingente Italiano IT-NCC) di Naqoura, con il principale scopo di favorire la cooperazione internazionale e l’integrazione sociale tra i militari italiani e la popolazione libanese.  Anche il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, che nei giorni scorsi si è recato in visita a Beirut, ha detto che la Francia «sarà  sempre al fianco del Libano» ed è pronta a fornire qualsiasi tipo di assistenza.

Membro della Lega araba, il Libano è coinvolto fin dal secondo Dopoguerra negli scontri arabo-israeliani, subendo due volte l’invasione israeliana (1982 e 2006). I suoi problemi di equilibri interni hanno portato il Paese alla guerra civile: dal 1975 al 1990 musulmani e cristiani si sono scontrati tra massacri e tensioni, causando all’incirca 150mila morti e portando migliaia di persone a lasciare il Paese nel tentativo di allontanarsi dalla violenza delle stragi compiute dalle diverse forze politiche presenti in Libano. Sono oltre 17mila le persone scomparse durante il conflitto armato durato 15 anni, tuttavia la fine della guerra civile non ha risolto definitivamente la situazione che, con il sempre crescente consenso al partito sciita filoiraniano Hezbollah, vede ora lo scontro politico contrapporre musulmani sunniti e sciiti. Nel 2018 si sono svolte le prime elezioni legislative dal 2009, continuamente rimandate per via delle tensioni tra i vari schieramenti politico-confessionali, e hanno visto la formazione di un governo espressione del partito Hezbollah.

«Il Libano vive una crisi profonda, molte persone già negli ultimi mesi stanno vendendo case e terreni, la volontà è lasciare il Paese – continua Ibrahim –. Se un anno fa una persona poteva vivere con uno stipendio pari a circa 600 dollari, con il Covid-19 il potere di acquisto è affondato, con una prospettiva non più alta di 100 dollari al mese. L’evento di ieri deve smuovere il mondo: o lima le tensioni interne e con i vicini e i Paesi del Golfo o sarà la goccia che farà traboccare il vaso, la gente è arrabbiata e serve aiuto ora.»