Dunque,ci chiedevamo “che fare?” (https://ilnazionale.net/attualita-e-politica/il-nuovo-avanza-con-le-abitudini-del-vecchio/).
L’opzione di riformare il sistema dall’interno fu percorsa a partire dagli anni Novanta, quando la Prima Repubblica si ammalò di una malattia micidiale, la magistratite, che in breve tempo la portò alla tomba.

Il suo becchino ne fu l’attuale presidente, il quale diede il nome all’unica reale, e provvisoria, riforma che fu prodotta dopo il decesso: quella del sistema elettorale, il cosiddetto “Mattarellum”. A seguito dei referendum del 1993 che introdussero il sistema elettorale maggioritario, seppur “corretto” con una quota proporzionale, Mattarella fece da relatore alla legge elettorale maggioritaria che ne conseguì e che mandò, temporaneamente, in soffitta il sistema proporzionale su cui si era retta la Prima Repubblica. Ma con un cortocircuito che ne avrebbe minato la base: alla riforma elettorale in senso maggioritario che per la prima volta consentiva al corpo elettorale di dare un diretto mandato popolare di governo a una delle coalizioni che si sarebbero presentate alla competizione elettorale, bypassando le trattative di segreteria tipiche del sistema proporzionale, non seguì una riforma dell’architettura istituzionale del sistema, che rimase parlamentaristico. La rappresentanza, seppur esercitata direttamente dal corpo elettorale, rimaneva dominio, dunque, del Parlamento. 

Il sistema era incompleto e, appunto, alla prima occasione fece cortocircuito. Così, quando il Governo Berlusconi 1, che inaspettatamente alla prima prova del Mattarellum umiliò la “gioiosa macchina da guerra” di Occhettiana memoria, cadde per mano della Lega di Bossi, l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro fece un atto politicamente inopportuno, incaricando Lamberto Dini di trovare in Parlamento una nuova maggioranza di Governo. Di fatto Scalfaro ignorò il mandato diretto dato alla coalizione di centrodestra tramite la legge elettorale maggioritaria, ma costituzionalmente il suo atto era ineccepibile perché perfettamente aderente al dettato della Carta Fondamentale.

Da allora il tema della “riforma istituzionale” in Italia è diventato un capo ricorrente nell’armadio della politica, come il tubino nero di Chanel.  Parafrasando un celebre motto di un assai sopravvalutato economista tedesco del XIX secolo, noto per le clamorose smentite empiriche alle sue fumose teorie, “uno spettro si aggira per l’Italia, lo spettro delle riforme”.

O almeno “si aggirava”, dato che il Governo populista giallo-verde sembra aver, e non casualmente, accantonato il tema.

Il riformismo della Seconda Repubblica si trascinò così per un paio di decenni, tra riforme boomerang, come quella del Titolo Quinto della Costituzione targata centrosinistra, all’affondamento per via referendaria della riforma costituzionale del centrodestra nel 2006 e di quella del centrosinistra nel 2016. In mezzo un coacervo di riforme del sistema elettorale fatte esplicitamente per impedire la vittoria dei competitor (Porcellum), o per propiziare un accordo trasversale postelettorale (Rosatellum bis), proposito quest’ultimo che si è schiantato contro il muro del Reale, portando alla formazione del primo Governo populista della Repubblica italiana.

Un capitolo a parte meriterebbe la riforma della “Carta Costituzionale”, sempre invocata da tutte le parti e sempre regolarmente affossata. Tale Carta fu il prodotto di un compromesso tra Partito Comunista, Democratici cristiani di sinistra e Azionisti e questo è il motivo per il quale, ad esempio, essa si apre con un riferimento al “Lavoro”, come le Costituzioni dei Paesi del Socialismo reale, e la proprietà privata in essa è citata per la prima volta solo all’articolo 42. E solo per definirne le limitazioni. Ma fu pure scritta con il terrore dell’uomo forte, la cui ombra si allungava ancora sulle teste dei Padri Costituenti, e questo è il motivo per il quale fu previsto, unico caso in Occidente, un bicameralismo perfetto e un Esecutivo debolissimo, nella quale il “Presidente del Consiglio dei Ministri” – contorcimento lessicale per evitare pure le definizioni che potessero richiamare suggestioni autoritarie – è una sorta di “Primus inter pares” più che un Premier, come invece avviene nella maggior parte delle liberaldemocrazie occidentali.

Del fallimento storico dei partiti che hanno fatto del riformismo la loro bandiera è appena il caso di accennare. La Lega Nord non seppe, o assai più probabilmente non volle, imboccare una delle molteplici strade che gli si ponevano innanzi, eternamente ondeggiante tra autonomismo, federalismo, regionalismo e secessionismo. Quest’ultimo, in particolare, non fu mai, a parere di chi scrive, un’opzione reale per la leadership leghista, quanto piuttosto un randello da agitare strumentalmente e occasionalmente ai soli fini di mobilitazione del consenso. Ironica conclusione della stagione del riformismo è il ritorno del sistema elettorale proporzionale (ma, contrariamente a quello in vigore nella Prima Repubblica, senza preferenze) che nel 2016 ne chiuse il cerchio.

Quindi, se un insegnamento politico si può trarre dalla stagione del riformismo italiano è che il “Sistema Italia” a detta di tutti è da riformare, ma di fatto è irriformabile. Troppo forti le resistenze interne che, nel timore di perdere le rendite di posizione acquisite, bloccano ogni velleità riformistica. Quindi, se non è possibile una riforma dall’interno del Sistema, quali altre opzioni politiche rimangono?