Ultimamente sono frequenti le notizie in molte città italiane di risse tra ragazzi, eventi che esplodono apparentemente senza particolari motivi e i cui fatti vengono spesso raccontati dai media con distacco, quattro dati oggettivi e ripetendo il mantra dei “futili motivi”. Si tratta di un fenomeno sicuramente non nuovo ma che in talune occasioni viene amplificato mediaticamente.

Per capire meglio il fenomeno chiediamo aiuto alla dottoressa Ilenia Bozzola, psicologa e psicoterapeuta con all’attivo diverse collaborazioni con i plessi scolastici, esperta delle dinamiche e problematiche legate al periodo dell’adolescenza. Il testo che segue è frutto di un confronto sulla tematica che, anche non riuscendo a dare risposte certe e univoche, speriamo possa stimolare gli adulti a farsi qualche domanda, a porsi dei dubbi e a parlarne con i figli.

L’Osservatorio Nazionale sull’Adolescenza segnala come violenza ed episodi aggressivi tra ragazzi siano in aumento con un’età media che si sta progressivamente abbassando. È evidente inoltre, nel confronto con un decennio fa, che le ragazze costituiscono ancora una minoranza, ma con passo di crescita molto rapido. Si tratta di un processo di spostamento dei limiti di cosa è legittimo fare, un rilassamento su quel che viene percepito dai ragazzi come un comportamento che può essere agito. La violenza verbale e anche fisica, così, rientra sempre più nel concetto di normalità: viene sperimentata in famiglia, nelle relazioni semplici, e poi esportata nel mondo di fuori, dove spesso assume connotazioni ben diverse. Il problema esiste da sempre, perché da sempre gruppi di ragazzi si “menano” con i coetanei, che sia per differenze ideologiche, per contese sulla panchina al parchetto, per differenze di classe sociale o anche solo perché di una scuola “nemica”. Non possiamo quindi pensare che sia colpa del Coronavirus, del lockdown se ora i ragazzini si trovano per picchiarsi. O meglio, non solo. L’aspetto sociologico interno agli adolescenti è stato decisamente amplificato dalla pandemia e lo ha fatto esprimere in dinamiche diverse dal passato.

Potremmo chiamarlo, affettuosamente, l’effetto “pentola a (re)pressione”. I ragazzi sono sottoposti a una serie enorme di pressioni, quasi quanto gli adulti e sicuramente con una cassetta degli attrezzi meno solida.

L’isolamento totale del primo periodo, la didattica a distanza e la chiusura di tutte le attività ludiche hanno compresso la naturale aggressività dei ragazzi, portandoli a ricercare in autonomia modi di rilasciarla, di liberarsene. La rabbia è un’emozione fondamentale nello sviluppo della persona, fin da piccoli ai bambini viene insegnato che è necessario provarla, riconoscerla e comunicarla. In questo periodo atipico, sono venuti a mancare ai ragazzi i luoghi dove poter trovare uno sfogo alla pressione accumulata. Sono state eliminate nello stesso momento le occasioni di interazione sociale, sia a scuola che nei pomeriggi al parco, e la possibilità di incanalare l’aggressività nel contesto positivo fornito dallo sport. La voglia di vincere e sopraffare l’altro è una forma di violenza, una via di uscita per la rabbia che viene trasformata nel modo migliore in assoluto: che sia un successo, una soddisfazione fisica e psicologica o una sconfitta, la rabbia diventa azione, diventa fiducia di sé e voglia di migliorare.

C’è nell’uomo come nei ragazzi un bisogno innato di contatto fisico, necessità messa sotto i riflettori dall’isolamento forzato e dall’aumento di forme depressive più o meno grandi di questi mesi. Nei bambini più piccoli, dove tale bisogno non è mediato dalle convenzioni, si nota spesso una ricerca della fisicità anche attraverso azioni aggressive. In assenza di valvole di sfogo positive e controllate come lo sport, forse i ragazzi utilizzano le risse e i litigi per eliminare le distanze fisiche, come un mezzo per ritrovarsi e prendere contatto con gli altri e per trovare se stessi. Uno dei punti cardine della crisi adolescenziale riguarda infatti l’autodeterminazione, quel processo di individuazione del proprio spazio nel mondo. Inizia prima nel contesto familiare, mettendo in discussione le regole dei genitori; anche nel gruppo dei pari avviene un processo simile, in cui si va a testare quanto ognuno possa diventare popolare, infrangendo regole o imponendo comportamenti agli altri. È un primo, embrionale tentativo di scoprire chi ha veramente il potere e di recuperarne un po’ per se stessi. Ecco che la rissa potrebbe essere vista come un modo per decidere le gerarchie, per farsi notare dagli altri e sentirsi vivi.

Negli anni della repressione del fenomeno ultrà, sono sorti spontaneamente eventi in cui le tifoserie di due squadre si incontravano in un luogo definito semplicemente per picchiarsi, quasi sempre senza bisogno di cause scatenanti. Per il gusto di muovere le mani, di scaricare la tensione di una vita difficile o solo per la voglia di mettersi alla prova contro l’altro. È una cosa che continua ancora, specialmente nei Paesi nordici e che somiglia per molti tratti a quanto vediamo accadere coi ragazzini nelle nostre città. Persone che non sentono il bisogno di sentirsi buoni o cattivi, di dare una connotazione morale alla rissa; che lo fanno senza pensare a un motivo specifico, senza alcun bisogno percepito di darsi una giustificazione. Si picchiano perché lo vogliono fare. Esiste però una differenza, figlia dei tempi moderni: la spettacolarizzazione della violenza, che viene ripresa con video rimbalzati su tutti i social. Mentre gli ultrà scelgono luoghi remoti e preferiscono che nessuno ne parli, per i ragazzi la violenza ha un senso solo se viene pubblicata, se li mette in mostra con i coetanei.

Banalmente, i ragazzi vogliono essere visti e provano soddisfazione non tanto nel picchiare o vincere (raramente ci sono vincitori, in queste scaramucce) quanto nella pubblicità, nelle visualizzazioni sui canali social.

Crescono nella logica del successo in funzione dei click, hanno per eroi gli influencer e mangiano pane e videogiochi, fina dalla tenerissima età. Non è un caso che i titoli più diffusi tra bambini e ragazzi prescindano completamente dal concetto di bene o male. Sono giochi in cui vince chi distrugge, uccide, commette reati di vario genere, senza instillare alcun dubbio etico. Sono gli adulti a restare incagliati sulla questione moralista, riducendo il problema a nuovi paletti e regole, quando invece sarebbe utile educare alla scelta consapevole e provare a immedesimarsi nei giovani, ricercando punti di contatto o scontro. È apparso evidente in questi mesi atipici come gli adulti vivano forse nella paura di non essere in grado di sostenere i ragazzi, si sentano insomma inadeguati. Questo potrebbe spiegare perché li abbiamo snobbati fin dall’inizio della pandemia, abbiamo dato per scontato che si sarebbero adattati, che non avessero bisogno di aiuto. Con la scusa della distanza tecnologica tra le generazioni, abbiamo preferito non vedere che qualcosa stava cambiando, per timore di dover ammettere che non sapremmo cosa fare.

I ragazzi vanno nelle piazze principali, si mostrano senza mascherina e sfidano le autorità. Ci stanno dicendo qualcosa, stanno sfogando la loro rabbia e provando a mettersi in contatto con noi. Non sono ragazzi cattivi, sono ragazzi che stanno esprimendo un disagio, una rabbia che sicuramente hanno provato anche gli adulti responsabili, in questi mesi.

Riportiamo la breve intervista a un ragazzino di 16 anni, intelligente, bravo a scuola e appassionato delle “lotte”, definizione sua che fa sorridere, visto il baratro ideologico che invece sembra pervadere le risse tra giovanissimi.

Ci spieghi cosa vi spinge a comportarvi così?

«Il motivo è roba da adulti, a noi non serve un motivo. Lo facciamo e basta.»

Vi piace il pericolo, il rischio?

«Ma no. È solo divertente, mica andiamo a farci male davvero dai, quattro pacche due spintoni. E anche le guardie cosa ti fanno? Intanto devono prenderti.»

Ma se ti prendono, non hai paura di rovinarti il futuro?

«Boh, mica mi possono arrestare per una cosa del genere. Mica ammazzo qualcuno, è una roba che siamo tutti d’accordo. Prendiamo la multa per le mascherine, ecco cosa ci fanno (ride, nda).»

Come vi mettete d’accordo?

«Sui social. A volte messaggi diretti a persone vere, compagni di scuola o di scuole nemiche, gente del parchetto. A volte c’è solo una chiamata a chi vuole esserci. Tipo flash-mob.»

Hai mai pensato a cosa ti spinge a farlo? Ti sei fatto una domanda in questo senso?

«No. Passiamo il tempo, ci si vede con gli altri. Magari divento famoso.»