L’Icom, International Council of Museums, ha deciso di riaprire i musei il 18 maggio, domenica che coincideva con la Giornata Internazionale dei Musei, come un importante segnale di fiducia e di speranza, nonostante le gravi conseguenze economiche portate dal Covid-19.

Castelvecchio a Verona, sede del Sistema unico museale scaligero, di importanti archivi e gabinetti, ha riaperto con entrate contingentate e con le dovute misure di sicurezza solo domenica 4 luglio con un ottimo successo di ingressi anche grazie a un ritorno, seppur ancora cauto, di turisti in città.

Molto spesso si sottovaluta questo museo, ricco sia dal punto di vista artistico della collezione, in quanto contiene arte medievale, rinascimentale e moderna, sia dal punto di vista architettonico e decorativo.

La nascita dei musei civici

Con l’Unità d’Italia, insieme agli studi e alle opere di inventario degli storici dell’arte Giovanni Battista Cavalcaselle e Adolfo Venturi, si stava aprendo un animato dibattito sul patrimonio artistico, che andava di pari passo con una faticosa messa a punto di una legislazione ad hoc. Contemporaneamente veniva liquidato l’asse ecclesiastico: la legge sopprimeva alcuni ordini religiosi e il loro patrimonio passava in proprietà dei Comuni. Nascevano così i Musei Civici, luoghi che rappresentano e proteggono l’arte dello specifico territorio.

Castelvecchio era stato allestito come museo civico e ricreava un ambiente medievale, seguendo una tendenza europea che alla fine dell’Ottocento stava riscoprendo quel periodo storico come una nuova identità. Negli anni Venti del secolo scorso, dopo alcuni scavi, fu fatto un intervento nel fortilizio: spogliato da tutte le aggiunte dei secoli precedenti, gli fu ridato un aspetto medievale, e lo si può notare oggi da merli e torri. Il museo assumeva, quindi, nel 1923 la forma di museo di ambientazione grazie all’allestimento di Antonio Avena, direttore dei Musei civici fino al 1955.

Dettaglio del finestrone che incornicia internamente la bifora in stile gotico

La rivoluzione di Carlo Scarpa

Negli anni Sessanta, dal 1957 al 1964, a dare un apporto alla struttura fu Carlo Scarpa, un designer formato alle vetrerie di Venezia e nominato architetto honoris causa in fin di vita. Il suo primo apporto nella reggia veronese fu la mostra “Da Altichiero a Pisanello” (1958), su incarico del neodirettore Licisco Magagnato. L’intervento stava diventando occasione di scoperte importanti – come il ritrovamento del vallo trecentesco e dell’antica porta di Morbio, un varco aperto nelle mura comunali e chiuso al tempo degli Scaligeri – che per ovvi motivi indirizzarono le scelte museografiche, piegandole alle esigenze di quanto il restauro andava svelando dell’originaria struttura del castello.

Carlo Scarpa a Castelvecchio si confrontò con un museo da allestire in un edificio da ristrutturare completamente: distrusse la caserma napoleonica con l’allestimento di ambientazione di Avena, poiché occultava le tracce antiche, mentre mantenne il prospetto verso il cortile con la ricostruzione di facciate gotiche veronesi, sempre disposte precedentemente da Avena. Restauro e soluzioni museografiche procedevano di pari passo e si influenzavano a vicenda.

Tra industriale e antico

Come notare l’intervento del grande architetto nella nostra visita? L’innovazione portata da Scarpa è contenuta nel rapporto tra gli elementi architettonici, ossia finestre, scale, sostegni, e le opere conservate all’interno del museo. I materiali prediletti dall’architetto sono industriali, principalmente cemento, vetro e ferro. Anche i colori sono industriali: l’intonaco è grigio o color sabbia a cui sono aggiunte pennellature fortemente colorate. In questo caso si percepisce l’influenza della cultura figurativa contemporanea: ricorda l’arte di Mondrian con campiture di colore in bordi neri (nel 1956 Carlo Scarpa realizzò l’allestimento della prima esposizione del pittore olandese negli spazi della Galleria d’arte moderna di Roma, ndr).

Gruppo scultoreo della Crocifissione di Tomba, attribuito al Maestro di Sant’Anastasia

In questo modo riesce a creare un equilibrio con effetti non centrati, proprio con l’obiettivo di eliminare la banalità e la ripetitività: infatti ogni supporto è unico e irripetibile ed è stato disegnato da Scarpa stesso. I materiali industriali sono stati lavorati con tecniche antiche aggiungendo un uso particolare delle forme: in questo modo combina industria, tradizione artigianale e arte contemporanea. Spesso le opere sono collocate al centro dello spazio proprio per mettere in evidenza il retro, per mostrare la struttura e la composizione dell’oggetto artistico. Il sostegno quindi esalta l’interezza dell’opera, l’artisticità ma anche la creazione stessa, dunque i colori, le forme, ma anche i materiali.

Da contenitore a opera totale

Nelle prime sale sono posizionate sculture antiche, diradate e presentate su basi sempre diverse e calibrate per ciascuna opera: non sembrano frammenti sradicati dal contesto, ma ritrovano senso e attualità come preziosi documenti del passato.

Cangrande I della Scala, risalente al 1340-1350

La statua equestre di Cangrande, opera emblematica del museo e oggetto di lunghe riflessioni, in un primo tempo era stata posta nel cortile d’ingresso come solenne invito alla visita. Ora è collocata all’esterno, su un alto basamento in calcestruzzo. Visibile a tutti, la si può ammirare sia a distanza ravvicinata seguendo l’itinerario di visita, o dal basso, dal cortile. È in un contesto sospeso tra esterno e interno che serba la memoria della sua originaria collocazione all’aperto. Soluzione geniale e irripetibile, che vincola l’opera all’edificio e a quella posizione, confermando l’idea di un allestimento concepito come opera vera e propria e immodificabile. Ed è anche una scelta in grado di proteggere la scultura dal degrado atmosferico e dall’inquinamento.

L’allestimento in generale è pura arte, a partire dai piccoli dettagli, le vetrate in corrispondenza degli archi gotici, le campiture, che creano contrasto o riprendono i colori delle opere, e i contorni neri che creano un fil rouge nella visita, la forma degli scalini, la posizione delle opere e i sostegni che esaltano il retro delle statue e dei dipinti.

La collaborazione tra Licisco Magagnato e Carlo Scarpa alla fine degli anni Cinquanta ha trasformato il museo da contenitore a opera totale, dove allestimento e collezioni si esaltano vicendevolmente, sono in uno stretto rapporto mai banale, che le lega sia funzionalmente che emotivamente.

Se fino ad oggi non avete mai visitato il museo è ora di perdersi per due ore all’interno di Castelvecchio, sia per aiutare la ripresa dei musei, sia per tornare a casa arricchiti. E anche se ci siete già stati, dovete tornare e rivivere l’esperienza di passeggiare con Carlo Scarpa.