Se qualcuno avesse detto al compositore Aldo Finzi: “lo sai che l’arte è fuori dalla politica?” avrebbe risposto: “magari!” Nato nel mantovano alla fine dell’Ottocento, veniva da una famiglia di musicisti, ed era di famiglia ebraica. Alla musica dedicò tutta la sua vita, anche se studiò giurisprudenza. Fu molto felice quando seppe in via confidenziale che aveva vinto il concorso indetto dal Teatro alla Scala per la nuova opera da mettere in scena.

Sarebbe stata un successo, quella Serenata al vento, solo che correva l’anno 1937. Qualche mese dopo le leggi razziali diventarono realtà. Finzi continuò a comporre, creando la sua versione del Mercante di Venezia, in cui l’ebreo Shylock è posto al centro dell’attenzione. Sapeva già che l’opera che andava scrivendo non sarebbe stata rappresentata. Così la storia di una giustizia mancata è rimasta chiusa in un cassetto per 85 anni.

“Giustizia” nel grido di Shylock

“Giustizia!”, grida Shylock, e la voce del solista risuona, espressiva e tormentata, fra le mura della Sala Maffeiana. Grazie agli sforzi della Comunità ebraica veronese e della Regione Veneto, l’8 dicembre è stata eseguita l’opera in tre atti in forma di concerto. Prima mondiale assoluta, in presenza di Bruno Finzi, figlio del compositore.

La sala, bruciata da bombe incendiarie nel 1945, ha vibrato grazie alle voci di giovani cantanti di tutto il mondo (Shylock interpretato da Riccardo Certi, Jessica eseguita da Alessia Panza, il ruolo di Antonio condotto da Lee Chi Hoome, quello di Lorenzo da Simone Fenotti, Lee Dan Bi nei panni di Porzia, Angel Harkatz Kaufman nel ruolo di Lancelotto/Tubal, ndr) taceva con il silenzio di tanti spettatori veronesi che l’hanno riempita per omaggiare Aldo Finzi, il compositore.

La scelta discutibile del Teatro alla Scala

Se queste mura potessero sapere cosa stesse accadendo quest’anno poco distante da Verona, piangerebbero in solidarietà con il teatro di Mariupol, tomba di tante anime innocenti. Il Teatro alla Scala, invece, ha espresso un’altra preferenza. Nell’anno maledetto dell’invasione russa in Ucraina ha pensato bene di fare uno sgarbo triplo: mettere in scena un’opera russa, ambientata in Russia e affidata a cantanti russi.

Certo, l’esecuzione del Boris Godunov di Musorgskij era stata pianificata con largo anticipo. Fatto sta che a settembre, mentre i russi scappavano dalla regione di Kharkiv a gambe levate, le voci bianche stavano imparando i cori nella lingua degli aggressori.

Rispetto alla programmazione risalente a qualche anno fa, viene da ricordare che la guerra c’era già tre anni fa. Mettiamo nel 2022 che non si poteva cambiare la scelta di un’opera che mancava su quel palco dal 1979. Ma i cantanti? Doveva per forza esserci Ildar Abdrazakov, beniamino di Putin? Non c’erano altri talenti se non gli altri dieci cantanti russi i quali, tornando a casa e pagando le tasse sosterranno con i loro guadagni la guerra in Ucraina?

Nessun cenno al conflitto e alle sue vittime

Ma come fa la Fondazione, che dichiara nel proprio codice etico di essere contraria a “ogni forma di discriminazione, qualunque essa sia: di età, di sesso, di orientamento, di stato di salute, di stato civile, di razza, di opinioni politiche e di credenze religiose”, a sostenere una nazione che tutte queste norme le viola sul proprio territorio da anni? Le colpe della Russia sono acclarate, testimoniate dai numerosi crimini di guerra commessi sul territorio ucraino. È mai possibile non farne alcun cenno?

Non ci vuole molto: un minuto di silenzio per commemorare le vittime; un breve intervento di qualche diplomatico o attivista ucraino; una mostra fotografica nel foyer per illustrare i crimini di guerra o qualsiasi altra forma che faccia riferimento a quello che sta succedendo nella vita reale.

Un altro esempio lo si può trovare alla Carnegie Hall di New York, dove il 4 dicembre scorso Martin Scorsese e Vera Farmiga hanno presentato il centennale della prima esibizione di Carol of the Bell del compositore ucraino Mykola Leontovych, avvenuta nel 1922 sullo stesso palco.

Applausi alla fine della prima del Boris Godunov, foto Teatro alla Scala / Brescia – Amisano

Non avete tempo prima dello spettacolo, non avete spazio espositivo, non potete fare altri eventi per bilanciare? Fate qualcosa post factum: devolvete una parte del ricavato a favore dell’Ucraina: comprate generatori, coperte, candele, qualsiasi cosa!

La lezione ignorata del Nobel per la pace

Per restare in tema, si parli delle limitazioni di libertà di parola in Russia, di Memorial, venerabile organizzazione non governativa chiusa quest’anno dal governo russo in quanto dichiarata “agente straniero”, ma insignita del premio Nobel per la pace insieme all’ong ucraina Ccl – Center for Civil Liberties e al dissidente bielorusso, attualmente incarcerato, Ales Bialiatski e che proprio in queste ore stanno ricevendo il premio a Oslo (per Baliatski è presente la moglie Natalia Pinchuk, ndr).

“Prendete una posizione!” chiedevano gli attivisti ucraini e italiani che hanno protestato fuori dal teatro. Non si tratta di cancel culture, di rimuovere un patrimonio dell’umanità, sebbene la cultura ucraina ne sia stata vittima nei lunghi secoli di dominio russo, segnato da censura, libri sequestrati, scuole nazionali chiuse, fucilazioni degli intellettuali. Gli ucraini ne sanno qualcosa e non augurano a nessuno la repressione culturale: la diaspora ucraina ha chiesto al teatro, tempio di cultura, solo un chiaro segno di simpatia e di compassione.

La consegna del Premio Nobel per la Pace a Oslo, oggi 10 dicembre 2022.

Godunov, un’opera che parla di potere

Infatti, la Scala ha preso una posizione: quella di celebrare la grandezza del genio e dello Stato, con un’opera in cui lo zar Boris viene acclamato a furor di popolo e i perfidi gesuiti tramano contro la santa madre Russia. Boris è presentato come un tiranno che ha (forse) ucciso l’erede al trono, innocente ma anche minorato mentale inadatto come regnante. Lo zar, tormentato dai rimorsi, muore, seguito dai suoi cari che muoiono poco dopo l’arrivo del nuovo zar, anch’esso acclamato dal popolo.

Sono esattamente queste le problematiche eterne attualissime che trovano riscontro nel cuore del pubblico: regicidi, infanticidi, follia, torture, e soprattutto il potere, potere al centro di ogni cosa, potere per avere il quale si giustifica (o forse no?) ogni mezzo. Un esempio di opera nient’affatto avulsa dalla politica.

Un popolo tra finzione e realtà

Cercando di capire la reazione degli italiani, ho dialogato con una signora colta e sensibile che era andata alla prima. Lei aveva percepito che c’era uno zar cattivo che badava solo ai propri figli, uccidendo chi lo intralciava. Si era commossa a vedere nei bambini del coro i bambini ucraini uccisi, e negli adulti del coro i civili ucraini morti o in pericolo di vita.

Mentre mi raccontava le sue impressioni, non si è accorta di un problema di interpretazione: si tratta di due popoli diversi e antagonisti. Confonderli è come dire «sono andato a sentire Wagner, e gli eroi teutonici che combattono per l’oro dei Nibelunghi mi hanno fatto pensare agli ebrei, sono proprio uguali». Non si è accorta che i bambini, crudeli e capricciosi come i loro genitori, stavano maltrattando un folle di Dio. Non ha notato che era il popolo ad acclamare al regno Boris (che inizialmente ha rifiutato di accettarlo, perché “la corona di Monomaco è pesante”) e poi a spingere sia Boris alla follia che Dimitri al regno.

La spettatrice guarda tutto attentamente ma le sfugge che questa opera offre lo schema di analisi della realtà, confezionato per giustificare – o mettere in dubbio, se si ascolta un po’ più attentamente – il potere assoluto degli zar (o chi per loro) conferito dalle masse popolari consenzienti.

Eppure Pushkin e Musorgskij lo mostrano chiaramente: è il popolo silente a decidere le sorti dei propri regnanti; è il popolo che crea e abbatte gli idoli; è il popolo che perpetua la violenza sui propri nobili: il popolo russo.

Il plauso di Peskov

Due giorni dopo la première, Dmitrii Peskov, il portavoce di Cremlino, ha commentato con enorme soddisfazione la scelta del teatro milanese, lodandone la “sanità mentale” e citandolo come esempio di “una voce nel deserto”, esempio da seguire per i teatri che invece hanno cancellato le produzioni già avviate delle opere russe.

L’arte è fuori dalla politica” è la nuova espressione dell’equidistanza, una strategia in cui si dice una cosa (di essere neutri rispetto al conflitto russo-ucraino) e si finisce per farne un’altra (privilegiare l’aggressore).

Convinti che la cultura sia staccata totalmente dalla storia, dalla vita e dal popolo che l’hanno generata, e che il popolo sia diverso dal proprio governo, non hanno udito le parole di Pushkin, quando nel dramma Boris Godunov fa dire al pretendente al trono Dimitri: “Benedetta sia l’unione di spada e lira, avvolte dagli stessi allori”.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei ministri, e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, all’inaugurazione della stagione 2022-2023 del Teatro alla Scala (foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica).

Il 7 dicembre Ursula von der Leyen, Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, europeisti e atlantisti nelle dichiarazioni politiche, hanno avuto, nella migliore delle ipotesi, un colpo di miopia etica.

Chi dichiara il proprio grande amore per l’arte in sé e insiste a rimarcarne la neutralità, dimentica che la politica e l’arte sono modi strettamente interconnessi di esprimere le aspirazioni delle masse degli esseri umani, chiamate comunemente “popoli”.

Vita, arte, politica non si possono scindere e chi cerca di farlo, sa bene di barare. Il caso della cultura russa non è diverso: quella cultura come tutte le altre, esprime le aspirazioni del popolo, ne celebra la forza e ne giustifica le scelte. Guerra fratricida inclusa.

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