Contro ogni legge e pratica giornalistica, stavolta partiamo dalla fine. Un po’ perché l’inizio affonda lontano nel tempo e un po’ perché a noi, in tempo di quarantena, interessa il presente e soprattutto il futuro. Questa settimana le borse mondiali hanno segnato un forte crollo, che sembra già in parte rimbalzare, ma ha lasciato tutti piuttosto scioccati. I numeri non mentono e non complottano: da metà febbraio, la borsa di Milano ha perso il 27%, mentre le altre europee e anche Wall Street perdono intorno al 20%. Ha poco senso mettersi a contare i miliardi di ricchezza andati in fumo, ancor meno calcolare quanto ci metteremo a recuperare il duro colpo inferto dal virus all’economia mondiale.

Eh già, il virus è la prima causa di questo crollo e proprio in questi giorni sta mostrando il suo lato peggiore, con il contagio arrivato ormai in oltre 100 paesi e conseguenze pesanti sull’economia globale. Analisti e organismi sovranazionali hanno rivisto le stime di crescita, tagliando le percentuali di circa un terzo. Tradotto per noi esseri umani basic, è come se prevedessero che perderemo ognuno un pezzo del nostro stipendio, chi più chi meno a seconda dei casi (i Paesi, come le persone, hanno caratteristiche peculiari e profonde differenze), ma tutti arriveremo a rinunciare a qualcosa.

Da un lato abbiamo quindi una situazione di futuro incerto e felicità a momenti (cit.) creata dall’epidemia di COVID-19 a livello mondiale, una profonda crisi sanitaria che si riverbera su maggiori costi sociali per gli Stati e sorprendenti iniziative dirigiste, qualcuno dice autoritarie, anche nei paesi più democratici e sulle libertà fondamentali cui ci siamo tanto affezionati. Dall’altro, ci sono le grandi potenze della Terra che vedono in un cartellone del Risiko indebolito da diffidenze e divisioni l’occasione perfetta per piazzare qualche colpo ben assestato.

Si erano già affrontati, su questa testata, temi legati alla guerra commerciale tra USA e Cina, al ruolo fondamentale dei paesi arabi nella mediazione per arrivare a un accordo che promettesse prosperità e crescita per tutti. Si era accennato in quell’occasione al ruolo stranamente esterno della Russia, più preoccupata a fare quel che fa meglio, e cioè la guerra (Siria e Libia, apertamente, ma ce ne sono molte altre meno pubblicizzate dai media che vedono in prima linea le forze speciali del Cremlino – da tutti chiamate con il neutro che non impegna di “mercenari”). Qualcosa però è cambiato e sta cambiando sotto i nostri occhi.

La settimana scorsa a Vienna si è tenuto il vertice OPEC Plus, a cui hanno partecipato – come si intuisce dal nome – i 14 Paesi membri dell’Organizzazione dei produttori di petrolio e le nazioni che non aderiscono al blocco, pur producendo greggio. Il tema sul tavolo era apparentemente semplice e non nuovo, studiare insieme le misure necessarie e utili a mantenere il prezzo del petrolio a un livello redditizio. Lo so, state pensando che il prezzo è figlio del mercato, come direbbe John Maynard Keynes, che le dinamiche della domanda e dell’offerta permetto al mercato di trovare un suo equo equilibrio… bene, dimenticate tutto. Qui ci sono 20 Paesi che decidono a tavolino quanto deve costare il barile (unità di misura ufficiale dell’oro nero) per garantire a sé stessi – mica a noi consumatori – di arricchirsi come si conviene. Tema ancor più scottante in un contesto che vede la Cina, cioè il maggior acquirente mondiale e con largo scarto sul secondo, con la produzione industriale e quindi, allargando la visuale a macchia di… petrolio, le vendite ai minimi termini. 

I contendenti principali del Risiko petrolifero sono stati per molti anni Arabia Saudita e Russia, entrambi bellamente sorpassati dal 2015 da un nuovo player di mercato, che ha conquistato alti livelli di produzione grazie alle nuove tecnologie: gli Stati Uniti (e, in misura minore ma crescente, il Canada). Gli Americani estraggono il petrolio dallo scisto, dalle sabbie bitumose, utilizzando il fracking, tecnica nemica dei geologi per le invadenti conseguenze sul suolo. Grazie a questa soluzione, la loro massa produttiva si è allargata e la classifica vede ora gli USA medaglia d’oro, con il 18% della produzione mondiale, l’Arabia e la Russia quasi pari merito con il 12% e 11% rispettivamente e il Canada temporaneamente cucchiaio di legno con il 5%. Per comprendere meglio la situazione, si deve considerare anche l’enorme maggior costo sostenuto da quelle nazioni che non possono semplicemente fare un buco profondo nel deserto per veder zampilli da soap opera anni ‘80. Al contrario, gli Americani devono spremere il petrolio fuori dal terreno, adottando avanzatissime tecnologie e con operai che lavorano in condizioni estreme.

Tutto questo nel libro di economia diventa un costo, che ognuno di noi sa bene non dover mai superare le entrate. Quando il costo di estrazione USA non è più stato remunerato dai ricavi di vendita, le società del cosiddetto shale oil – così come qualsiasi casalinga che faccia la spesa con il portamonete vuoto – sono state costrette a ricorrere al credito. L’indebitamento è decuplicato in pochi anni e raddoppiato dal 2018: si parla di USD 200 miliardi di rate in scadenza nei prossimi 4 anni, USD 40 miliardi già nel 2020.

Ecco quindi prepararsi la ricetta perfetta, la win-win situation a livello planetario che Putin sognava da tanto, tanto tempo. Silenzioso e tranquillo nel suo letargo, l’orso sovietico riduceva pian piano la spesa pubblica, conteneva le bizze del bilancio statale e si preparava alla primavera, pronto ad andare a caccia. La stagione è iniziata proprio al vertice OPEC Plus, quando il delegato russo ha rifiutato decisamente la richiesta dell’Arabia Saudita di tagliare 1,5 milioni di barili, pro-quota tra i produttori, per mantenere le quotazioni a livelli interessanti. Niet, ha risposto il Ministro Novak che avverte: “si sta cercando un accordo con i sauditi, ma noi siamo pronti anche ad aumentare la produzione in qualsiasi momento”. La forza della Russia sta proprio nei suoi numeri: più ampie le riserve, più rilassato il budget statale, Mosca può tirare la corda molto più a lungo dell’Arabia Saudita, un paese che dal petrolio ricava il 90% delle sue entrate, unico sostentamento di una spesa pubblica in forte crescita, in linea con l’ambizioso programma di modernità introdotto dal principe Mohammed bin Salman.

Una Russia pigliatutto insomma? Non è ancora detto. Aramco, la società statale saudita, ha reagito al rifiuto russo immettendo sul mercato maggiori quantitativi e facendo perdere al prezzo al barile circa il 30% in un solo giorno (e facendo implodere le borse mondiali). Rimbalzerà, ovviamente; nessuno tra i produttori può permettersi quotazioni così basse, ma Paesi come il nostro, dipendenti dall’import, tirano un sospiro di sollievo. E poi arrivano dalla Cina segnali di cauto ottimismo: da qualche giorno non si rilevano casi nuovi di contagio e l’economia potrebbe tornare alla normalità. La storia insegna che il dragone ferito, quando si rialza, lo fa con un grande balzo e questo potrebbe far risalire la domanda di petrolio.

Certo, la Russia ha una posizione di incredibile vantaggio: lasciando ai minimi il prezzo del greggio, potrebbe, da un lato cancellare la fastidiosa concorrenza americana e dall’altro rimettere al loro posto le pretese dei paesi del Golfo. Moody’s stima che il break-even, cioè il prezzo minimo di equilibrio tra i famosi costi e ricavi, sia molto basso per la Russia (circa USD 42 al barile), mentre per evitare problemi USA e Arabia hanno bisogno di circa il doppio. Noi che ricordiamo i tempi dell’austerity e delle targhe alterne, noi che abbiamo vissuto i tempi del troppo poco, potremmo assistere anche a un mercato inondato di oro nero, con il rischio di affogarci dentro come un cormorano qualsiasi nel Golfo del Messico.

La strategia USA per fermare tutto questo punta molto sul fatto che il debito delle compagnie petrolifere americane è per buona parte nelle mani degli stessi soggetti tentati di farle fallire, sulla sacra teoria per cui nessuno ama prendersi a sberloni da solo. Nel dubbio, però, hanno pensato bene di non rimandare – nemmeno con un virus letale in giro – l’esercitazione militare massiva programmata da anni, quella Defender Europe 2020 che misurerà l’efficienza delle forze terrestri e aeree della NATO nel dispiegarsi a tutela dei confini europei. Mostrando muscoli bellici, portando il Risiko dal piano economico a quello con i carrarmatini veri, Trump avrà pensato di anticipare la mossa dell’avversario e di poterne forse influenzare le mosse, indurlo a mostrare il suo lato magnanimo. Ha camuffato le sue intenzioni dando all’esercizio logistico un nome da supereroe ma il suo “Difensore dell’Europa”, guardando bene, serve a proteggere ben altro. 

Immagino vedremo presto girare il meme con la sua faccia iconica, il ciuffo biondo su una fronte corrucciata, e una nuvoletta che dice “sto giro la invado io, la Polonia!”.