Torniamo nuovamente sulla grave situazione che sta vivendo buona parte della popolazione siriana e di cui abbiamo già parlato nei giorni scorsi su queste “colonne”. Una situazione che, come già ampiamente spiegato, si divide su un duplice fronte: da una parte quella che vive sotto i bombardamenti a Idlib, nel nord del Paese mediorientale, dove è in corso da giorni una battaglia per la conquista di quelle zone da parte delle milizie filoturche e dell’esercito di Assad, il monarca siriano, sostenuto dalle forze russe di Putin; dall’altra la drammatica situazione che si vive a Lesbo e al confine turco-greco, dove si stanno ammassando da giorni i profughi siriani, in fuga dalla guerra e alla ricerca, dopo anni di dolore (il conflitto è iniziato nel 2011) e privi di alcuna speranza. Lo facciamo, in particolare, con Giovanni Di Cera, coordinatore del Gruppo di Verona di Medici di Senza Frontiere (MSF), che tre settimane fa ha lanciato una campagna per chiedere un aiuto concreto all’attività dell’organizzazione internazionale e che scade oggi, sabato 7 marzo. Basta un sms al numero 45596 per donare due euro o collegarsi al sito www.msf.it/natiemergenza e sostenere in questo modo MSF.

Giovanni Di Cera

Di Cera, scade oggi una campagna che rappresenta linfa vitale per la vostra attività. A cosa è destinata?

«L’iniziativa “NatiEmergenza” è in particolare per le donne e sono contento di poterlo ricordare oggi, visto che siamo vicini alla Giornata Internazionale a loro dedicata, che si celebra ogni anno l’8  marzo. E mi riferisco in particolare a quelle madri (e ai loro bambini) che purtroppo ogni anno muoiono (l’OMS stima che siano circa due milioni e 800 mila) perché partoriscono in zone critiche del mondo, dove c’è la guerra o ci sono gravi problemi di carestia e povertà. Sotto i bombardamenti, nelle zone di guerra, poche persone hanno il coraggio di uscire per andare in un ambulatorio quando ne hanno necessità. E capita così che molte donne partoriscano in casa o comunque in condizioni igienico-sanitarie inadeguate, il che può portare a infezioni o peggio.»

Concretamente i fondi che state raccogliendo in questi giorni come verranno distribuiti?

«Salvaguardiamo la nostra indipendenza e per questo non prendiamo fondi da governi e da Stati, ma solo da privati cittadini o da società selezionate. Per questo lanciamo campagne ad hoc per determinati progetti. I soldi raccolti in questa campagna verranno assegnati a sei ospedali pediatrici, che sono dislocati in alcune delle zone più complesse del mondo: Haiti, Libano, Repubblica Centroafricana, Lesbo (Grecia), Yemen e Afghanistan. Ogni giorno noi di MSF aiutiamo a nascere in sicurezza (sia per la mamma sia per il bimbo) ben 800 nuovi nati in tutto il mondo. In pratica nei nostri ospedali ogni dodici minuti nasce un bambino.»

Foto di Medici Senza Frontiere

 A parte questi sei ospedali psichiatrici dove operate principalmente?

«Abbiamo oltre 400 progetti divisi in circa 70 paesi distribuiti in tutti e cinque i continenti. Generalmente, comunque, se siamo presenti significa che c’è una situazione economico-sociale grave. O c’è una guerra o c’è una carestia o comunque grande difficoltà. Noi in particolare, essendo in Italia e in Europa, ci focalizziamo in quest’ultimo periodo sulle dinamiche legate alla situazione siriana e greca. Nel paese mediorientale la popolazione è ormai allo stremo, sotto i bombardamenti da giorni. Gli sfollati sono a migliaia e costituiscono il bersaglio inevitabile degli eserciti che si contrappongono in quell’area.»

Un’immagine della campagna di raccolta fondi di MSF

A proposito: negli ultimi giorni è tornata alla ribalta situazione che si è creata al confine fra Grecia e Turchia

«Come detto siamo presenti nell’isola greca di Lesbo con un ospedale pediatrico nel campo profughi di Moria. Un campo che dovrebbe contenere al massimo tremila persona e invece ospita circa ventimila rifugiati, di cui ben ottomila minori, lì affluiti negli ultimi mesi, con un evidente enorme problema di sovraffollamento. Nella nostra clinica realizziamo oltre 100 visite giornaliere ai bambini.»

Oltre a quella di tipo pediatrico, che altro tipo di assistenza portate in loco?

«Portiamo anche supporto psichiatrico. Quando rimangono li per anni in quelle condizioni alcune persone, in particolare i giovani, cadono facilmente nel fenomeno della depressione, tanto che sono in molti che decidono di compiere gesti di autolesionismo o addirittura estremi per tentare di togliersi la vita. Vivere in una situazione di drammaticità, poi illudersi di aver trovato un posto dove poter rinascere e invece rendersi conto di essere rientrati in un nuovo incubo può rappresentare un contraccolpo importante per chi già è mentalmente fragile per le esperienze negative vissute a contatto con guerra e non solo.»

Cosa si può fare per contribuire a risolvere la situazione? 

«Il governo greco gestisce una situazione estremamente difficile. Non può essere lasciato solo. A mio avviso l’Europa dovrebbe intervenire per aiutarlo. D’altronde si tratta di fenomeni, quelli della migrazione, che sono globali e che caratterizzano il nostro tempo: nascono da situazioni oggettive, come questa guerra in Siria che dura da nove anni, e a volte non solo non tornano alla normalità nel tempo, ma anzi si acuiscono, come in questo caso, causando di fatto una vera e propria catastrofe umanitaria senza precedenti. Scenari in cui le vittime sono rappresentate da quasi il 50% di bambini. Secondo me non si può rimanere insensibili davanti a queste cose.»

Nei giorni scorsi i vertici UE si sono recati in loco per verificare la situazione… che idea si è fatto lei?

«La Von der Leyen e Sassoli sono andati a fare un sopralluogo al confine greco-turno per capire cosa sta effettivamente succedendo e decidere cosa fare. Speriamo che arrivino presto provvedimenti che possano aiutare a risolvere il problema. Stiano parlando, ribadisco,  prima di tutto di esseri umani, in particolare di bambini che muoiono per il freddo, per la mancanza di cibo, per le bombe. Lancio un appello ai governanti e a ognuno di noi: tutti dobbiamo sentirci chiamati in questo momento a un’assunzione di responsabilità. Quando qualcuno sta soffrendo, questo dovrebbe rappresentare un problema per ciascuno di noi. Questa gente fugge dal loro Paese, dove non ha prospettive. C’è un mondo che scappa e che ha bisogno di quella solidarietà, che forse noi, da emigranti, abbiamo ricevuto in passato.»