«C’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri che su altri argomenti; non facciamo che commentarci a vicenda. Tutto pullula di commenti, mentre di autori c’è gran penuria. La principale e più illustre scienza dei nostri tempi, non è forse saper comprendere i sapienti? Non è questo il fine comune e ultimo di tutti gli studi? Le nostre opinioni s’innestano le une sulle altre.» Una riflessione che sembra ben adattarsi a questi giorni fuori dal comune. Eppure è stata scritta nel XVI secolo dal grande filosofo Michel de Montaigne nella sua opera, I saggi. Oltre a ben analizzare la società del suo tempo sembra descrivere quella attuale, la network society come la chiama il più attuale sociologo spagnolo Manuel Castells.

Titoli allarmistici apparsi nei giorni scorsi su alcune testate italiane

Siamo disorientati. È inutile negarlo. Il Coronavirus ci ha messo a nudo. In un attimo le nostre certezze sono cadute difronte a un pericolo oscuro, ignoto, invisibile. Tuttavia, non stiamo assistendo solo a un’epidemia ma a una vera e propria “infodemia”.  Il termine, utilizzato per la prima volta in un articolo del 2003 sulla Sars per il Washington Post da David J. Rothkopf, riassume bene il fenomeno. In altre parole è la circolazione eccessiva di informazioni contraddittorie, in molti casi non vagliate con precisione, o che non possono essere verificate, che rendono difficile orientarsi su un determinato tema, argomento, scelta per la difficoltà di individuare fonti non solo affidabili, ma anche certe. Questa infodemia ha delle conseguenze sui comportamenti della gente, in molti casi irrazionali, che fanno notizia. Così assistiamo alla narrazione della diffusione della epidemia: i morti e contagiati che aumentano, le misure di protezione da prendere, accanto alla quale se ne sviluppa un’altra altrettanto pericolosa, che alimenta ansia e tensione: quella dei supermercati presi d’assalto, dell’amuchina e del gel per mani a prezzi stellari, di treni bloccati per persone sospette di aver contratto il virus, di cittadini italiani all’estero riconosciuti come untori ecc..

Un cartello apparso in un negozio di Borgo Venezia (Verona) in questi giorni

A Verona, una pasticceria ha abbassato le serrande lasciando a un cartello la motivazione: “Chiuso per ingiustificata psicosi”. Sono le conseguenze della nuova ignoranza postmoderna. Diversa dalla precedente che ha caratterizzato gran parte della storia dell’uomo: la mancanza di conoscenza che ha spinto l’uomo verso i grandi processi di modernizzazione e di controllo della natura. La nuova ignoranza è figlia di un eccesso informativo, che genera disorientamento, mancanza di azione o al contrario un’azione disordinata. Seguendo la vicenda sui social, sui giornali, in televisione questa confusione aumenta e non è sempre facile capire cosa sia giusto fare. La situazione è stata ingigantita o invece sotto si nasconde qualcos’altro? Quanto è reale il pericolo se anche alcuni esperti non concordano tra loro? La mascherina la dobbiamo mettere sì o no? Perché su questo il dubbio viene. Molti concordano che ha senso solo per colui che può contagiare, però poi si vedono sanitari e personale specializzato, per non dire parlamentari, che se la mettono. E poi i numeri dei contagi in Italia sono realmente il frutto di accertamenti più capillari? Perché l’Italia si e altri paesi no o comunque molto meno?

Il refrain più gettonato è sempre stato uno: non c’è cura, è un virus molto contagioso ma non dobbiamo creare panico. È il caso del double bind di Bateson, cioè una comunicazione fortemente contraddittoria, nella quale il ricevente del messaggio non ha la possibilità di uscire fuori da questo schema stabilito, con la conseguenza di chiudersi in se stesso. Tutto ciò genera ancor più instabilità. Un esempio? Un titolo come questo: “Choc da coronavirus in Borsa: 5 motivi per non farsi prendere dal panico”. Il mio double bind si crea tra messaggi generalmente allarmistici della televisione: bad news is good news; e quelli più rassicuranti degli amici sui social. Non so se si siano messi tutti d’accordo, ma vedo girare molti post per aiutare a mantenere la calma. Alcuni provengono da fonti attendibili, altri da fonti sconosciute. Siamo giunti a una lettura dell’informazione “a grappolo”, “sparpagliata”. Al singolo la responsabilità e il compito di assemblare i tanti frammenti ritrovati a destra e a manca. Si tratta di una decodifica disordinata confusa, ma con la prospettiva che ognuno ha qualcosa da dire, trasformandosi anche in virologi da bar.

Allora che fare? Difficile dirlo. Avremo persone allarmate e preoccupate, altre sospettose che ci sia qualcosa di nascosto dietro, altre ancora inclini a minimizzare. Una cosa però la possiamo fare: provare a informarci con maggiore attenzione. Ciò  non vuol dire solo scegliere le fonti migliori, importante e indispensabile, ma tornare a leggere innanzitutto di più, e soprattutto un articolo dall’inizio alla fine, e non solo le prime cinque righe come spesso accade. In altre parole scegliere bene e approfondire per continuare a scegliere bene gli articoli successivi. Mettere in moto un meccanismo cognitivo e di conoscenza virtuoso. Questo significa riprendere nelle proprie mani la gestione dell’informazione, diventando utenti attivi e non passivi, come spesso accade. È un’occasione da non perdere. E se questo richiede di cambiare qualche abitudine e qualche sforzo in più, possiamo affermare che ne vale davvero la pena.