Sulle pagine di questa testata, solo pochi giorni fa, avevamo previsto che, nonostante lo stato di conflittualità permanente tra M5S e Lega, l’esperienza di governo populista sarebbe proseguita, se non altro per interesse del dominus della coalizione, Matteo Salvini, il quale con un’abile strategia mediatica avrebbe potuto massimizzare la rendita di consensi attribuendosi tutti i meriti dell’azione di governo e scaricando sull’alleato i demeriti. Nella nostra analisi M5S per Salvini era lo sparring partner perfetto (https://ilnazionale.net/attualita-e-politica/la-carogna-sulla-spalla/). Tale previsione è stata clamorosamente smentita, dato che l’estenuante “Stop and Go” – che andava avanti ormai da mesi – si è risolto con la decisione di Salvini di tagliare il nodo di Gordio e di porre fine all’esperienza di governo in coabitazione con i 5 Stelle.

Vediamo quindi di ripartire dai fatti. Casus belli dello strappo di Salvini è stata la mozione “no TAV” presentata da M5S con la quale si chiedeva al Parlamento “di adottare atti che determinino lo stop dell’opera e anche una diversa allocazione delle risorse stanziate per finanziare infrastrutture maggiormente utili e urgenti, sul territorio italiano” e che è stata respinta dall’aula con voto schiacciante e trasversale. Tuttavia questo pare nulla di più di un pretesto. Fin dal momento in cui il premier Conte aveva pubblicamente dichiarato l’impossibilità di fermare la realizzazione dell’opera, il M5S aveva individuato come exit strategy per evitare il bagno di sangue in termini di immagine (e di consensi) nei confronti del proprio elettorato la presentazione in Parlamento di una mozione “no TAV” che si sapeva benissimo sarebbe stata respinta, come in effetti poi è stato. Era, quindi, assolutamente risaputo da Salvini che il M5S si sarebbe arroccato dietro il voto dell’aula unicamente per meri motivi strumentali e non si capisce per quale motivo quella che palesemente è stata una tattica parlamentare per contenere i danni mediatici sia diventata per il leader della Lega l’accelerante della crisi. I motivi dello strappo di Salvini, quindi, vanno cercati altrove.

Il leader della Lega si è reso conto che la manovra di fine anno non sarebbe stata realizzabile senza una dura perdita di consensi. Unire il libro dei sogni che contiene flat tax e salario minimo con le clausole di salvaguardia che prevedono l’aumento automatico dell’IVA nel 2020 e con le regole di bilancio stabilite dei Trattati Comunitari è un compito impossibile senza scontentare larghe fette di elettorato o scontrarsi duramente con la Unione Europea. Esercizio già tentato dal governo populista sovranista e finito con una sostanziale umiliazione. Ecco allora delinearsi la strategia del capitano: tirare il freno di emergenza del carrozzone del governo, ma solo quando la sua corsa è già ampliamente in zona “rossa” per poter così garantire – in caso di elezioni anticipate – un Governo “in office” che entro il 31 dicembre licenzi una finanziaria degna di questo nome. Infatti, nonostante abbia proclamato che se si andasse alle urne entro ottobre, “si farebbe in tempo a farne tre di leggi di finanza” – affermazione che assomiglia molto ai proclami pre-elettorali di taglio delle accise o di concessione dell’autonomia al Veneto in 15 minuti – il capitano sa benissimo che, con i tempi tecnici previsti dal dettato costituzionale, le possibilità di avere un Governo in carica per l’autunno che in pochi mesi riesca a produrre la complessa finanziaria entro la fine del 2019 rasentano lo zero. E sa benissimo che il Presidente Mattarella, fedele “custode della Costituzione”, non scioglierà le Camere prima di aver tentato una soluzione parlamentare alla crisi, cosa che giocoforza ne allungherà ulteriormente i tempi, restringendo il margine operativo per l’eventuale Governo che dovesse uscire dalle urne una volta sciolte le camere, dopo il fallimento di ogni via parlamentare.

In questo disegno il Presidente Mattarella potrebbe essere un attore involontario, ma in qualche modo “necessario”, essendo costretto a muoversi nel dettato costituzionale. Perfettamente consapevole di ciò, Salvini ha immaginato due scenari: nel primo, una pattuglia di “responsabili” gli toglie le castagne dal fuoco, licenziando entro fine anno una finanziaria “lacrime e sangue” e dando modo alla Lega di battere la grancassa mediatica della propaganda. Nel secondo, qualora non si trovasse nessuno con uno spirito di sacrificio tale da essere disposto a sfidare il malcontento popolare accollandosi la responsabilità di una manovra economica impopolare, scatterebbe l’esercizio provvisorio e l’aumento automatico delle aliquote IVA che è già previsto per legge. Ecco il senso del monito lanciato dai leghisti che affermano «se qualcuno la tira per le lunghe avrà sulla coscienza un eventuale aumento dell’Iva»: scuotersi di dosso la responsabilità di quel provvedimento, in modo tale da addossare la colpa su altri utilizzando il refrain collaudato “non hanno lasciato che il popolo si esprimesse” e capitalizzarne così il consenso derivante dal malcontento che ne scaturirebbe.

Renzi e Zingaretti

Una strategia potenzialmente “win – win”, che tuttavia si basa su alcuni azzardi difficilmente calcolabili. E’ vero che nella sua corsa al voto Salvini ha come alleato oggettivo il segretario del PD Zingaretti il quale, per derenzizzare i gruppi parlamentari, ha già dichiarato che il suo partito è indisponibile a soluzioni di compromesso basate sull’alleanza a tempo con M5S, mentre è a favore di un ricorso alle urne. Strategia questa che consentirebbe al segretario di epurare i renziani dalle liste elettorali, i quali presi in contropiede dall’accelerazione della crisi non si sono ancora organizzati in una formazione alternativa al PD, come tutto lascia intendere che abbiano intenzione di fare. Ma è anche vero che nessuno ora può prevedere il risultato delle urne, che potrebbe vedere la necessità da parte della Lega di allearsi con il vecchio CDX composto da Forza Italia e Fratelli d’Italia per formare un Governo, ma in questo caso l’autonomia delle Regioni del Nord potrebbe essere ancora a rischio, essendo nota la contrarietà del brand di nicchia dei nostalgici dell’MSI a ogni apertura autonomista. E per Salvini sarebbe un bel problema, dato che nella sua narrazione l’autonomia del nord fino a ora è sempre stata affossata dai “no” di M5S. Anche se a ben guardare non è esattamente un segnale incoraggiante per le istanze autonomiste del nord iniziare la campagna elettorale dalle regioni del sud come ha fatto lui.

Comunque vadano le cose, sul capo degli italiani pende la spada di Damocle dell’aumento dell’IVA, sulla quale di certo non basterà mettere la pezza con qualche post suoi social dal tenore “ciao amici, voi che fate? Qui tutto bene e un bacione ai rosiconi del PD”.