L’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite della risoluzione 2539, consentirà al contingente ONU di operare in Libano fino alla fine del 2021. L’intesa raggiunta nei giorni scorsi «rappresenta un grande fatto politico e rafforza l’impegno della comunità internazionale per lavorare per la pace tra Israele e Libano» lo afferma Gianluca Rizzo, presidente della Commissione Difesa della Camera dei Deputati. La situazione nel Paese dei cedri è tutt’altro che rosea, come avevamo raccontato in questo articolo all’indomani della tragedia nella capitale il 4 agosto.

Zeina Daccache

Abbiamo quindi chiesto aggiornamenti a Zeina Daccache, carismatica regista che per 15 mesi ha lavorato con 45 detenuti in un carcere libanese per mettere in scena un adattamento di 12 Angry Men, ossia 12 Angry lebanese, e il cui lavoro sarà presentato all’interno della rassegna Mediorizzonti, alla sua sesta edizione, al Cinema Nuovo San Michele. Parte dei proventi della serata saranno devoluti a “Catharsis – Lebanese Center for Drama Therapy”, associazione da lei fondata nel 2007, perché questi progetti rivolti alle detenute e ai detenuti possano proseguire anche in un momento così difficile per il Paese. Daccache per questo lavoro ha ricevuto il premio come Miglior documentario, premiato dal pubblico, al Dubai Film Festival e il premio del pubblico, Dox Box, a Damasco.

Zeina, com’è cambiata la sua vita dallo scoppio avvenuto al porto?
«La mia vita è cambiata in peggio, a livello personale, dato che nemmeno prima della distruzione del porto di Beirut c’era tranquillità né a livello economico né per quanto riguarda la gestione del Covid-19. Con l’esplosione è venuta a mancare anche quella legata alla propria vita o alle proprie cose come casa e lavoro, e il pensiero è che domani può succedere di nuovo e ti trovi coinvolta personalmente. Se c’era prima un barlume di speranza che il Libano potesse farcela con gli attuali governo e classe politica, questa speranza non c’è più e, se non viene rinnovata totalmente questa classe politica, tanti libanese non si sentono tranquilli con l’attuale governo.»

Come si svolgono queste giornate dopo il disastro del 4 agosto scorso?
«Attualmente in Libano le persone quando si trovano parlano del fatto che non riescono più a disporre dei soldi che hanno in banca o della zia che ha perso casa nell’esplosione o dell’amico che si è salvato per un pelo. Questi sono gli argomenti di ogni giorno e tanti libanesi stanno lasciando il Paese. Chi va a Dubai, meta principale dei miei connazionali, chi non so dove ma si mette in viaggio e qualcun altro che ha un fratello o un cugino in Canada e cerca di raggiungerlo.»

Cosa sta facendo per aiutare i suoi concittadini?
«Con la mia associazione, Catharsis, abbiamo deciso come prima azione di mettere i nostri spazi a disposizione di qualsiasi psicologo che rimasto senza studio dopo l’esplosione e necessitava di uno spazio per portare avanti il suo lavoro. Come seconda azione offriamo supporto psicologico per chi è stato danneggiato o è stato vittima del disastro. Questo supporto è dato attraverso le telefonate o attraverso Skype e Zoom ma anche, per chi preferisce, direttamente nei nostri locali. Cerchiamo in ogni modo di dare la possibilità alle persone di esprimere quello che hanno dentro perché quello che è successo è un trauma molto forte e difficile da superare.»

Beirut, foto di Zeina Daccache

Il governo libanese è caduto il 10 agosto quando il primo ministro Hassan Diab ha ceduto alle pressioni dei manifestanti, ma soprattutto a quelle politiche. Cosa sta vivendo in questi giorni il popolo libanese?
«La discesa in piazza delle persone per manifestare dopo meno di 48 ore dall’esplosione è stata una cosa molto importante per esprimere la rabbia che si ha dentro, a tutti i livelli. Questo ha portato alla caduta del governo ma l’obiettivo non era far cadere questi politici ma l’intento è un cambiamento radicale di tutta questa classe politica che governa il Libano da più di 30 anni e in particolare negli ultimi 13 anni. Questa è la semplice richiesta dei manifestanti. “Tutti vuol dire tutti” (Killun yaani killun è lo slogan delle proteste che si sono viste nell’ultimo anno in Libano, nda) e non c’è più fiducia in nessuno di loro. Ci vuole un cambiamento totale con uno stato laico che pensi ai suoi cittadini e non alle poltrone e ai partiti che vivono ancora sugli allori delle imprese che furono durante la guerra civile.»

Ci sono delle azioni concrete che si stanno già attuando, in particolare dopo le promesse da molti Paesi esteri sull’aiuto alla ricostruzione e la caduta del governo libanese?
«Non ho notizie di prima mano perché non lavoriamo direttamente nella zona dell’esplosione ma i nostri spazi sono a nord, fuori da Beirut, dove facciamo assistenza psicologica. Nella zona dove siamo noi non ci sono né ospedali da campo né altre forme di aiuto da soggetti esterni al Paese.»

(Tutte le foto dell’articolo sono di Zeina Daccache. Articolo realizzato grazie alla mediazione linguistica e culturale di Ibrahim Khachab)