Con negli occhi i lucciconi per le immagini dell’allunaggio e dell’arrivo del nostro Parmitano sulla Stazione Spaziale Internazionale, affrontiamo come ogni anno il delirio collettivo su complotto, set cinematografico, scie chimiche vaccinate, Kubrik e infine sì, Terra piatta. Se ho dimenticato qualche punto fondante del credo paccottaro, riempite pure il modulo di reclamo, così che i vostri dati finiscano nelle sapienti mani del nuovo disordine mondiale.

In effetti, però, il nostro pianeta sta diventando davvero sempre più piatto. Si appiattiscono in modo inarrestabile gli encefalogrammi dei suoi abitanti, sempre meno allenati al ragionamento e sempre più cani sbavanti al campanellino del Pavlov di turno. È paradossale notare come, in un periodo di libero accesso alle informazioni senza precedenti nella storia dell’umanità, questa libertà venga utilizzata a fini autodistruttivi: la libertà di uccidere la libertà. Di imparare e conoscere, di farsi un’opinione e di analizzare, di capire che si può avere ragione senza che l’altro abbia necessariamente torto, o peggio sia un imbelle qualunque.

Siamo fatti così…

La prima volta che si sperimenta la Terra piatta è nel sussidiario delle elementari, dove per raccontare il nucleo di magma che ci tiene tutti aggrappati alla vita si usa tagliare il pianeta in due, per meglio apprezzarne le stratificazioni, le differenze geologiche man mano che si scende verso il centro. Si comincia col libro di prima elementare (e qualcuno ci resta dentro), quando il percorso scolastico è ancora lungo, lo schiacciamento della personalità degli alunni continuo e logorante. La scuola riformata ha permesso ai bambini di avere le stesse opportunità di proseguire gli studi, dando anche ai meno abbienti il modo di accedere a un’istruzione superiore; ha creato un nugolo di insegnanti sessantottini molto attenti alla persona, all’inclusione e forse un po’ meno alla formazione.

Era necessario cambiare tutto, era giusto (ed è tuttora giusto) impostare l’educazione su livelli di uguaglianza dei mezzi. Il problema è che siamo finiti con l’appiattire, inesorabilmente verso il basso, le caratteristiche specifiche di ogni studente, condannando ogni forma di orgoglio per il bel voto ottenuto, quasi vittimizzando il dieci per far sentire esclusi e insufficienti i cinque. Ecco, un cinque è un’insufficienza, mostra qualche limite nello studio così come nell’insegnamento (qualità e quantità di) e va visto come sprone a migliorarsi, come spinta motivazionale. Nasconderlo dietro il silenzio omertoso delle classi italiane, camuffarlo con giochetti di prestigio tipo il 6 seguito da una sfilza di meno, non aiuta i ragazzi. Farà forse sentire meno colpevoli gli insegnanti, ma al ragazzo andrebbe trasferito il messaggio che il traguardo è proprio il dieci del compagno, che studiando insieme si può provarci e che tutto quello che ne uscirà, anche se un voto inferiore, sarà meraviglioso perché ottenuto con il lavoro.

L’insegnante dà mezzi per superare gli ostacoli

Eliminando lo spirito di competizione, si nutre l’autostima dei bambini, ed è encomiabile; prima o poi però questi soggetti si scontreranno con i dieci veri, quelli della vita, e la lezione sarà durissima. Perfino i più accaniti terrapiattisti ammettono l’esistenza di valli e montagne, di laghi e oceani: imparando a coltivare le differenze, a far risplendere le caratteristiche univoche di ogni ragazzo e favorendo il confronto, la sfida, l’ammirazione per il migliore; solo così il processo di appiattimento potrà rallentare e forse, con un po’ di impegno, alzare l’asticella del valore assoluto.

Ma la cultura delle differenze non esiste più, le differenze sono brutte, fanno male, discriminano. Vanno eliminate e smussate e piallate; in una società civile siamo tutti uguali, con gli stessi diritti e doveri. Vero, evidente, nobile. Ma allo stesso tempo pura utopia slegata dalla realtà di ogni giorno. Perfino le colline, se sottoposte a monocoltura, si indeboliscono e franano al primo nubifragio. A noi fragili esseri umani non resta che un analogo smottamento: ci convinciamo di essere tutti uguali per non ammettere che quella stessa diversità che ci potrebbe arricchire, in realtà, ci fa tanta paura. Ci appiattiamo sul terreno come i leoni con le zebre, pronti a scattare se qualcuno esprime un pensiero difforme, mette una giacca di colore inappropriato, parla usando troppe parole difficili (o sporche, o straniere, la scelta è ampia), ad azzannare chi prova a sentirsi fuori dal coro, a stonare perfino.

La locandina di Pino Aprile

Da qualche tempo gira una simpatica iniziativa, lanciata dal giornalista-scrittore Pino Aprile; l’autore di “Terroni” ha ora creato l’hashtag #comprasud e le locandine formato Facebook per i “bar deVENETizzati”. Aprile se la prende con quest’idea, di Veneti e non solo, di ridurre il proprio contributo alle casse statali per reinvestirle in loco, per provare a creare la “regione differenziata”, così battezzata da illustri pennaioli e poco male se in me la formula rievoca Elio e le Storie Tese. A molti condivisori seriali dello slogan di Aprile sfugge che probabilmente ci vivono già in una regione differenziata, o a statuto speciale, e che pertanto i presunti e ingiusti privilegi che ora alcuni chiedono sono già dotazione di altri e ottenuti talvolta senza merito particolare. Un po’ come a scuola, dove quasi il 60% dei 7365 studenti italiani a diplomarsi con lode nel 2019 proviene dalle stesse regioni in cui alle prove Invalsi del mese precedente uno studente su tre ha dimostrato di non saper leggere e comprendere un testo scritto.

Qui si fa l’Italia.

Ammettiamolo: le regioni d’Italia non potrebbero essere più diverse tra loro, sono state riunite forzosamente, pagando mazzette e promettendo privilegi (a sud), scalando montagne e trovando compromessi a nord, lasciando lo stato al Vaticano in cambio della vita eterna e liberandosi infine di un re ingombrante appena lo stivale aveva preso una certa forma e contenuto. Le differenze tra le macro regioni nord-sud d’Italia non trovano paragone in alcun altro stato europeo e troviamo la forza per dirlo: non siamo tutti uguali. Invece di – oppure oltre a – eliminare il prosecco dal menu aperitivo, si potrebbe iniziare ad apprezzare (e magari copiare) chi si distingue per amministrazione virtuosa della cosa pubblica, per livelli di occupazione e formazione, per apporto al PIL nazionale e a quelle stesse casse del mezzogiorno che, con nomi sempre nuovi, da 70 anni inutilmente cercano di colmare il divario economico e culturale. Uno specialista sul tema meridionale come Paolo Macry, da sempre agguerrito contro il vittimismo del sud e inventore della definizione provocatoria di Regno Indipendente di Sicilia, è tra i pochi ad aver colto perfettamente quant’è pieno il vaso che nessuno osa mai scoperchiare davvero, giusto una sbirciatina, un male del mondo alla volta. Tanto la Terra, si sa, è piatta: basta spazzare la polvere oltre il bordo.