“Una battaglia dopo l’altra”: la fiabesca rivoluzione americana
Paul Thomas Anderson scrive un altro capitolo del grande romanzo americano, concentrandosi sul tema della rivoluzione e della lotta armata e lo fa con un film fondamentale.

Paul Thomas Anderson scrive un altro capitolo del grande romanzo americano, concentrandosi sul tema della rivoluzione e della lotta armata e lo fa con un film fondamentale.
“[…] La nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Avevamo tutto lo slancio… cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda… e ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e guardare a ovest… e con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta… quel punto dove l’onda alla fine si è infranta, ed è tornata indietro”. Queste sono le parole di Raoul Duke, giornalista ispirato al realmente esistito Hunter S. Thompson, in “Paura e delirio a Las Vegas” (1998) di Terry Gilliam. Lontano ma in contatto con il Duke interpretato da Johnny Depp, il protagonista di “Una battaglia dopo l’altra” (2025) ha cavalcato un’onda anomala per anni e ora è proprio dove quella stessa onda si è infranta; è confuso, cambiato, sconfitto e dietro di sé vede un mare calmo senza movimenti.
“Una battaglia dopo l’altra” segna il ritorno in grande stile dell’imprevedibile regista Paul Thomas Anderson (Magnolia, Il Petroliere, Boogie Nights), cineasta “nato” con un piede nel ventesimo secolo e con l’altro nel ventunesimo. Dopo quattro anni dall’uscita del suo “Licorice Pizza” (2021) il regista californiano decide di incentrarsi su una (scintilla di) rivoluzione americana, ispirandosi al romanzo di Thomas Pynchon “Vineland”.
Il “quando” non è importante, ciò che importa è il French 75, movimento terroristico di sinistra schierato contro le politiche segregazioniste anti-migratorie del Governo degli Stati Uniti. Anderson da subito ci mostra un manifesto di come si muove questo gruppo; liberare campi profughi, attentati nei tribunali, blackout e rapine. In questo gruppo spicca tra tutti Perfidia Beverly Hills (nome non lontano dai carpenteriani Snake Plissken o Desolazione Williams) interpretata da Teyana Taylor, spaventosa e criptica nei suoi modi di fare. Su di lei mette i suoi occhi azzurri Pat Calhoun, nome in codice: Ghetto Pat (Leonardo DiCaprio) improvvisato rivoluzionario che viene sconvolto dalla furia e dall’energia di Perfidia.
I due si innamorano e ricordano a parti inverse, in chiave moderna e politica, Doc (Steve McQueen) e Carol (Ali MacGraw) nel grande film d’azione “Getaway!” (1972). Le similitudini con il film di Sam Peckinpah degli anni Settanta non finiscono qui; infatti, come in “Getaway!” anche qui una terza presenza entra per disturbare l’equilibrio della coppia, ovvero il personaggio del Colonnello Steven J. Lockjaw (Sean Penn). Militare fiero della sua eterosessualità, del suo razzismo e delle sue magliette attillate, Lockjaw sviluppa un’attrazione fisica ossessiva nei confronti di Perfidia e si presenta come antagonista della pellicola sin dall’inizio.
Le avventure in stile “Getaway!” dei due protagonisti finiscono con l’arrivo di una figlia, Charlene (interpretata da Chase Infiniti). Due rivoluzionari pronti a cambiare il mondo ma meno pronti ai cambiamenti che il mondo aveva in serbo per loro. Ad acuire i problemi di coppia ci pensa Lockjaw che comincia a braccare ogni membro del gruppo rivoluzionario e a usare misure drastiche su di esso. Padre e figlia, costretti alla fuga e con le nuove identità di Bob e Willa Ferguson, cercheranno di vivere una vita tranquilla lontani dalla rivoluzione. Non tutto andrà come previsto.
Stanno entrambi seduti sul divano con uno spinello ma uno ascolta i Creedence (o i suoni delle partite di bowling) e l’altro guarda “La battaglia di Algeri” (1966) di Gillo Pontecorvo. Uno torna a casa e trova dei tizi che gli urinano sul tappeto, l’altro torna a casa e trova sua figlia che lo rimprovera per aver fatto tardi la sera prima. Uno non è minimamente interessato alle rivoluzioni, l’altro crede fortemente nella lotta armata ed è mosso da forte voglia di cambiamento.
Queste sono alcune delle differenze tra Ghetto Pat e il Drugo (the Dude) de “Il Grande Lebowski” (1998) ma la somiglianza è evidente. Nonostante un abbigliamento casalingo (in pieno stile The Dude) e abitudini stanziali Pat Calhoun/Bob Ferguson è una sorta di Jeffrey Lebowski pronto a imbracciare un fucile e gridare “Viva la revolucion!”, ma con la differenza che quello creato da Anderson non è una semplice copia sovversiva del personaggio dei Fratelli Coen, bensì un altro punto di vista su uno “sbandato”; viene messo in scena un personaggio originale, iperattivo, paranoico, anticonformista e, per certi versi, sconfitto.
Proprio dai personaggi abbattuti e sopraffatti Leonardo DiCaprio riesce a tirare fuori una poesia attoriale commovente, la disperazione (a tratti isterica in questo caso) è una caratteristica che riesce a esprimere nei modi più contrastanti, facendo piangere e allo stesso tempo ridere lo spettatore. Esattamente come in “C’era una volta a…Hollywood” (2019) anche qui DiCaprio si diverte a giocare con un ruolo comico e, visti i risultati, ci riesce perfettamente facendo ridere di gusto con ogni suo balbettio e attacco isterico. Senza troppi dubbi si riconferma uno degli attori più versatili, carismatici e imprevedibili di sempre.
Vicino all’esilarante Pat troviamo da un certo punto in avanti nella pellicola uno dei personaggi più riusciti: Sergio “Sensei” Carlos. Lontano dal French 75 ma vicino ai bisognosi, il personaggio interpretato da Benicio Del Toro è simbolo della condivisione e della solidarietà, anche nei momenti di crisi. Sempre pronto a un piano b, Sensei è un padre protettivo per la comunità di immigrati irregolari della sua piccola città. In situazioni complicate e di alto rischio per la sua famiglia riesce a gestire tutto con assoluta calma e serenità (aspetto che diventa esilarante quando si trascina dietro il paranoico Pat). Sguardo sornione e temperamento placido, permettono a Benicio Del Toro di conquistare lo spettatore e far ridere in più scene.
Tornando invece al gruppo rivoluzionario protagonista di questa favola americana, è doveroso parlare del personaggio interpretato da Teyana Taylor, ambigua e controversa; poche parole, tanti fatti e tanta irruenza. Questa rappresentazione sfumata di Perfidia gioca a suo favore e incarna perfettamente i lati positivi e negativi dello stravolgimento portato dai gruppi antisistema. Lo dice il nome: Perfidia, la sua lotta è nobile, ma il suo temperamento non le permette di porsi dei vincoli e la sua passionalità non ha limiti. Non richiederebbe troppi sforzi immaginarsi Perfidia Beverly Hills tra i ribelli più attivi dell’FLN (il Fronte di Liberazione Nazionale algerino) presentato nell’opera maestra di Gillo Pontecorvo “La Battaglia di Algeri”.
Nonostante il film sia ben infarcito di un cast di attori già consolidati e di una certa età, riesce a trovare il suo spazio anche una giovane attrice. Una sorpresa per molti, Chase Infiniti (Charlene/Willa), schiva perfettamente il cliché del teenager ribelle trito e ritrito e, grazie anche a una fortissima sceneggiatura, traspare una giovane protagonista con la quale si fatica a non empatizzare. Willa è perseguitata dagli errori e dalle battaglie (una dopo l’altra) dei suoi genitori e dovrà farsi trovare pronta per combattere. Addestrata in Karate dal Sensei Carlos, il personaggio di Chase Infiniti, è furba e cerca di non rimanere mai vittima degli eventi.
I personaggi sopra descritti cercano di resistere al braccio più violento dell’establishment, militari, polizia, forze speciali e task force. Il film parte da un presupposto realistico ma che negli Stati Uniti di questi ultimi anni sarebbe una favola, ovvero la rivoluzione. A bloccare l’insurrezione sono coloro che il French 75 cerca di abbattere, il Governo con le sue unità speciali e le sue task force. Metodi violenti, scorciatoie e operazioni che non dovrebbero vedere la luce del sole contraddistinguono l’entità nemica.
A rappresentare questo tipo di America ci pensa il personaggio di Sean Penn. In ogni inquadratura, come appare sullo schermo, lo spettatore vorrà nascondersi e chiudere gli occhi alla vista del colonnello Lockjaw. Viscido, aggressivo, represso e millantatore. In costante ricerca di approvazione da uomini più in alto di lui (che tramano nell’ombra) Lockjaw nasconde dei contrasti che reprime con la violenza di un cane inferocito. La grandezza della scrittura di Anderson risiede proprio in questo, ovvero affidare a Penn un personaggio ridicolo; perché è proprio questo che contraddistingue Lockjaw. Di primo impatto può ricordare i perfidi nemici dei film d’azione degli anni Ottanta, ma con uno sguardo più attento il militare in cerca di conferma, pieno di muscoli e in lotta con sé stesso, è pietoso, le sue contraddizioni sono rese evidenti allo spettatore e questo lo rende, insieme a tutti gli altri, un personaggio comico; spaventoso, certo, ma comunque comico.
Questo lato umoristico che pervade il film non è unidirezionale, il velo della satira viene posto su tutti i protagonisti e la falce della comicità non grazia nessuno. Che ci venga presentata un’organizzazione governativa o una rivoluzionaria, i loro difetti sono messi in mostra e le loro assurdità sottolineate. Questo e altri elementi (una regia senza sbavature e capace di tenere lo spettatore incollato allo schermo), rendono “Una battaglia dopo l’altra” uno dei film più importanti di questa generazione.
Una storia originale, fatta dai giovani per parlare ai giovani, che arriva dritta al cuore. Finalmente un film che passerà alla storia per la sua vera importanza e non per come è stato pubblicizzato. Anderson capisce di cosa ha bisogno lo spettatore moderno ma non non ne diventa suo succube. Riesce (ancora una volta) nell’intento di raccontare perfettamente cos’è l’America e cosa sta diventando, cattura e critica uno dei momenti più difficili per gli Stati Uniti. Un film fondamentale che vuole farci cavalcare un’onda nuova. Imperdibile.
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