Le strade non sono tutte uguali. Alcune attraggono con la loro vitalità, sono allegre, frondose, linde. Altre invece disgustano per il chiasso, maleodoranti e grigie. Ognuna porta con sé le storie, i visi e le voci di chi le ha animate. E così, cambiano aspetto e significato in relazione a ciò che ciascuno vi ha vissuto.

Ieri, forse un tempo. Oggi no.

In compagnia di un tavolo verdognolo da campeggio, instabile e scomodo per sua natura, osservo la strada al di là del canale. Dal recinto del balcone, ultimo baluardo proteso al largo di una quarantena domestica, guardo con disprezzo via Camuzzoni. Non porta a nulla. Si dice che tutte le strade portino a Roma. Non è vero. Bisogna essere ottimisti, di ampie vedute e di intelletto agile per affermare e credere che ogni strada porti a Roma.

La quarantena ha reso evidente che le strade non conducono se non ai cassonetti guasti d’angolo o a bivi deserti, senza alcuna prospettiva. Roma è lontana, difficile dire quanto. È lontano il vecchio stadio Marcantonio Bentegodi. Paiono alcuni passi, potrebbero essere miglia, o giorni, o secoli. Tempi e distanze non contano più. La linea dell’orizzonte poi cessa di essere solco e demarcazione tra cielo e mare, o tra prato e tramonto, come in un disegno di bimbo. Al suo posto, un edificio di cinque piani le cui tinte pastello sfumano nelle mancate manutenzioni e si alternano con macchie di colori vividi sui lenzuoli impressi di arcobaleni.

Andrà tutto bene! come un mantra, come una cantilena da digerire e ruminare, assorbe il pensiero al pari di una puntura di zanzara quando comincia a prudere. Prima quasi piacevole, poi irritante, infine intollerabile.

Non aiuta osservare l’acqua così indisponente nel suo incedere a ritmo immutabile, senza orari, autocertificazione di via, ignara che il suo spostamento sia privilegio di pochi. Converrebbe rientrare in casa e richiudere il tavolino, ma il sapore dell’aria ha un richiamo forte, specie quando si alza la brezza, così inusuale alle nostre latitudini. Che sia da Nord o Bora irrequieta, il vento trasforma le idee, converte i colori, cambia le prospettive, solletica l’immaginazione. Un fogliame alzato d’impulso, un rondone in allerta, più lontano un abete incurante del tempo che cambia. Non si può rincasare proprio ora.

Già, ma quale ora? Tanta è l’inutilità del tempo. Non c’è persona alcuna sui balconi a godere dell’alzarsi del vento. Sento l’orgoglio della solitudine e la nostalgia, come fossi un highlander. Non un’auto pronta al semaforo della stazione, non un passante sulla ciclabile, non un furgone carico della fretta della consegna. Eppure, non c’è meraviglia e sorpresa più interessante dell’alzarsi del vento. Una carica di sconvolgimenti, di aghi di pino che si abbattono sul marciapiede, di pollini a creare turbini, ideati da chissà quale legge fisica. Eolo è in costante mutamento. Osserva dall’altole città, private della loro mondanità, sogghigna e se ne va, incurante.

Che nervi. Il vento, come l’acqua, non conosce confini, limiti, imposizioni. Devo rientrare, se non voglio maledire il girasole recluso in un modesto vasetto sempreverde. Pure lui non ha deciso nulla: né i propri natali, né il proprio passaporto.

Lo guardo e mi accorgo di provare una spontanea complicità tipica di coloro che condividono una sventura, quella di non potersi muovere. In casa, al chiaro di lampadine a basso consumo – che sapranno pure di virtù nella loro economicità, ma son tristi e mute – non c’è confine all’immaginazione. Il tappeto steso tra divano e televisore diventa dunque il piano palestra adibito al fitness, con la sola privazione estetica di qualche altrui gluteo in trazione o bicipite in fermento.

Il corridoio si trasforma d’incanto in un trionfale rettilineo olimpico con in sottofondo Chariots of Fire, le sedie assumono sembianze di paletti da slalom che suonano come campanacci alpini ad ogni tocco, il dolce della colazione, dagli strati mai ben assestati, ora è attraente quanto una torta nunziale.

Se la mente potesse arrivare sempre a tanta immaginazione. Sono ahimè invece già passati i momenti dell’euforia edella volontà, del riprendere in mano la casa, la cucina, gli hobby domestici. La vita.

Solo il vento richiama ad essa. Non la televisione, così uguale a se stessa, nemmeno la lettura, perché si sa, leggere ha bisogno di immaginazione, altrimenti diventa un esercizio vuoto di ogni spunto, quasi un obbligo. E così, stanco di rispondere presente a ogni stimolo tirannico da quarantena, ritorno a guardare l’orizzonte del quartiere. Solo lì c’è un po’ di Ulisse, soltanto lì il mondo manifesta giorno dopo giorno una salvifica indifferenza alle leggi e ai patimenti umani.

Solo in quei pochi metri quadri protesi verso una civiltà altra da sé, mai stata così tanto chimera irraggiungibile, si comprende la figura di quell’anziano che siede sull’uscio o alla finestra per ore, incurante del tempo che va, proprio in una fase della vita in cui dovrebbe percepirne la sempre più incalzante mancanza.

Nel silenzio delle motivazioni, nell’affievolirsi degli ardori, rimane con lo sguardo proteso verso l’infinito o, chissà, verso il vuoto.