A circa un anno dalla fine delle riprese esce oggi in streaming (sulle principali piattaforme, da Sky Primafila a Infinity, da Chili a Apple TV e molte altre), il primo lungometraggio del regista veronese Alberto Rizzi “Si muore solo da vivi”, prodotto dagli “altrettanto veronesi” Nicola Fedrigoni e Valentina Zanella, al loro secondo lavoro in questa veste dopo l’ormai celebre “Finché c’è prosecco c’è speranza”. L’opera di Rizzi è una commedia leggera che racconta una storia d’amore con molteplici variazioni sul tema che, a loro volta, spaziano dall’amore per la musica all’amicizia, dalle “seconde occasioni” ai rapporti familiari. Ne parliamo con lo stesso regista, a pochi giorni dalla sua presentazione al Cinema Fiume di Verona, che lunedì 15 giugno per l’occasione ha riaperto finalmente i battenti, dopo quasi quattro mesi di lockdown, per la gioia di tutti gli appassionati di quest’arte.

Rizzi, innanzitutto da dove nasce la “scintilla”, l’idea primordiale di questo film?

«È nato da un incontro con i produttori del film che avevano l’idea di un film ambientato nelle zone dell’Emilia, in particolare sulle rive del Po. Avevano anche pensato al possibile protagonista, cioè ad un tipico personaggio della commedia italiana, di una persona irrisolta fra disastri amorosi e lavori precari. Ne abbiamo parlato con Marco Pettenello, l’altro sceneggiatore, e abbiamo avviato quello che è diventato un lungo percorso, di scrittura prima e di realizzazione della pellicola, poi. Da quel primo incontro a oggi sono passati più di due anni.»

Com’è stato lavorare con i produttori Fedrigoni e Zanella?

«Sono due persone molto appassionate di cinema, che lavorano stando sul campo, non certo in ufficio. Vengono d’altronde dal lavoro di location manager e non a caso abbiamo fatto insieme a loro un lavoro certosino proprio sui luoghi dove girare. Volevamo che il film parlasse del territorio e abbiamo cercato di raccontarlo con una piccola opera che vive in simbiosi con questa provincia italiana. L’infinitamente piccolo che assomiglia all’infinitamente grande e che ha il merito di arrivare immediatamente al cuore delle persone.»

Parafrasando il titolo del film, si muore davvero solo da vivi?

«Quest’opera vuole essere un inno a combattere sempre, fino all’ultimo. È un titolo che, fra l’altro, ci arriva da una scritta che abbiamo trovato su un muro, durante le riprese. Ci è sembrato perfetto per quello che stavamo realizzando e lo abbiamo “rubato”.»

Quali sono i riferimenti cinematografici a cui ti sei ispirato?

«Quando mi muovo nel cinema ho un mio bagaglio culturale che mi porto inconsciamente dietro. Cerco di non guardare a qualcosa di specifico, ma è ovvio che tutta la stratificazione che uno ha accumulato nella vita alla fine viene inevitabilmente fuori. Il bello, poi, è che ognuno degli spettatori ci può vedere i propri riferimenti cinematografici. Quello che mi premeva fare era realizzare un’immagine che fosse il più possibile stratificata, che avesse cioè dietro un quadro, una pittura, una fotografia, in modo che lo spettatore potesse interagire con un proprio substrato inconscio, andando indietro con la memoria, perché questo porta a sua volta a interagire con i propri sentimenti.»

Come si è evoluta la sceneggiatura nel corso delle riprese?

«A me piace molto programmare, ma al cinema è difficile, perché è tutto un flusso. Anche sul set spesso esiste una grossa dose d’improvvisazione, non perché non si sappia cosa si deve fare, ma nel senso che inevitabilmente bisogna adattarsi alle situazioni. Se immagini una determinata scena con il sole, ma poi il giorno delle riprese piove che si fa? Si può decidere che in fondo la pioggia può andar bene ugualmente oppure si trovano soluzioni alternative, che possono arrivare a cambiare i percorsi delle storie. Il cambiamento più importante di sceneggiatura è stato, però, quello del finale, perché durante le riprese mi sono accorto che la vicenda stava prendendo un suo andamento ben preciso e a quel punto ho deciso di modificarlo.»

A un certo punto del film scorgiamo una sorta di autocitazione del tuo cortometraggio “Sleeping Wonder”. È così?

«A livello inconscio tornano spesso dei temi a me cari. Ho notato, ad esempio, che quasi sempre nelle mie opere c’è un personaggio che, per tentare di capire qualcosa di se stesso, a un certo punto deve attraversare un bosco. E così è stato anche in questo film.»

Film che, pur avendo tutti ruoli ben definiti, può essere considerato corale. 

«Avevo bisogno di tanti personaggi e che funzionassero bene fra loro. Il cast principale è importante, con Alessandro Roja, Alessandra Mastronardi, Neri Marcorè, Francesco Pannofino, Ugo Pagliai e Amanda Lear. Sui piccoli ruoli ho portato sul set gli attori con cui lavoro da anni, anche per sentirmi con loro un po’ più a casa. È stato bello lavorare con questa grande famiglia di attori e con questo grande cast.»

Cosa ti ha ispirato, in particolare, nella scelta degli attori?

«L’incontro con Alessandro Roja è stato fantastico. Ha letto la sceneggiatura e ha capito subito dove volevamo andare a parare. Si è creata, fra noi, subito una sorta di simbiosi. È un attore molto generoso e attento e controlla ogni singolo dettaglio, da grande professionista qual è. Si è dimostrato il primo appassionato di questo film, che ha interpretato donando al protagonista grande tenerezza. Poi c’è Alessandra Mastronardi, semplicemente meravigliosa. Persona simpatica, divertente, ma soprattutto ottima attrice. Per me lei è la Audrey Hepburn italiana. Non solo è molto brava, ma ha anche un carisma davvero senza eguali.»

A proposito di dive, com’è stato il primo incontro con Amanda Lear?

«Avevo un’occasione unica e volevo indurla a parlare della sua vita, temendo però che si potesse annoiare per le solite, vecchie, domande che le fanno tutti. Invece, senza che io nemmeno le chiedessi nulla, è partita subito lei a raccontarmi gli episodi più curiosi che ha vissuto ed è stato per me un incontro a dir poco incredibile. Tanto per dire Amanda è quel tipo di persona che ti dice, con assoluta nonchalance, “quando Dalì mi ha mandato da Fellini”, come se nulla fosse e invece già lì ti ha detto tutto. È un personaggio unico e nel film lei appare esattamente com’è nella vita.»

E poi ci sono gli altri: Marcorè, Pannofino…

«Quando ti trovi sul set con degli attori così bravi il tuo lavoro di regista è enormemente semplificato. Devi solo coordinare le loro parti, ma non devi spiegare molto, perché loro sono già pronti e ti offrono tutta la loro esperienza. Devo dire che hanno seguito tutti con grande disponibilità la mia visione.»

C’è anche un cameo di Red Canzian dei Pooh nel ruolo del Grande Musicista. Una scelta particolare…

«In quel punto della storia cercavamo un mentore che avesse avuto grande successo con la musica. Qualcuno che ce l’aveva fatta, insomma e Canzian ci sembrava la persona giusta. Uno che ha cantato per decenni ed è ancora sulla cresta dell’onda, può per certi aspetti essere d’ispirazione per il nostro protagonista.»

La scena in cui Canzian è presente si svolge sulla nave Stradivari, la più grande imbarcazione che naviga sul Po. Cosa rappresenta il fiume nel tuo film?

«Il film si apre e si chiude con il fiume. Crea una dinamica e una relazione con il fluire, che è un po’ l’anima della terra e degli abitanti delle zone in cui si svolge la vicenda. Sono persone abituate ad avere a che fare con le piene del fiume, dove tutto viene distrutto e tutto viene ricostruito. Spesso, nel film, si dice che “bisogna seguire il flusso” e infatti volevamo che il nostro personaggio seguisse gli eventi, un po’ come un tronco che si fa trascinare dalla corrente. La storia stessa doveva seguire questo andamento, che ogni tanto ti prende e ti porta in giro, proprio come fa il fiume. In quella scena, in particolare, ho voluto creare una sorta di “mito della nave” per rappresentare la possibilità di cambiamento nella vita.»

Nel film, nelle battute iniziali, c’è anche un riferimento al terremoto al 2012. La tua opera parla di amore e di musica, aspetti molto belli della vita, ma anche della responsabilità del ricordo e di crescere in esso le nuove generazioni…

«Si, è stato per me il punto di partenza. È quello che forse più mi è piaciuto della sceneggiatura, perché volevo sì che si trattasse di una commedia romantica, ma anche che avesse all’inizio questo riferimento serio, importante. Il terremoto lascia una crepa nei personaggi, che hanno un po’ tutti l’ansia di cambiamento, un po’ come il fuoco della Fenice che impone di reinventarsi. C’è chi come il personaggio di Marcoré ha dovuto aprire un nuovo bar, chi come Amanda Lear prima faceva la promoter di concerti e ora si dedica a organizzare matrimoni, poi c’è la famiglia, stravolta dalla tragedia, chi ha avuto l’illuminazione religiosa e via dicendo. Questo film parla di seconde occasioni, di ricominciare, di ricostruire. E credo che in questi tempi di Covid questi temi capitino a fagiolo. Noi, in effetti, avevamo programmato la nostra vita in un certo modo, ma poi arriva la pandemia a stravolgerla che ci impone di ripartire, spesso da zero, e di reinventarci.»

A questo proposito com’è cambiato Alberto Rizzi dopo questa esperienza?

«Era per me la prova del fuoco. Tutti fanno cortometraggi per poter arrivare un giorno a realizzare un proprio lungometraggio. In questo momento sono molto felice. È per me un punto di partenza, non certo un traguardo, anche se sono stati molti i passaggi per arrivare a metterlo insieme.»

Alberto Rizzi, a destra, con Alessandra Mastronardi

Cosa ti aspetti che le persone si portino dentro dopo aver visto il tuo film?

«Un sorriso. Ho fatto questo film pensando a un giorno di sole di primavera. Volevo che fosse positivo e infondesse una speranza, pur avendo a che fare con temi profondi. Volevo che lo spettatore stesse bene e si portasse a casa un po’ di serenità.»

Stai già lavorando ai prossimi progetti?

«Di idee nel cassetto ce ne sono tante e ad alcune sto anche già lavorando, ma ora è il momento di pensare a questo film e a godersi il momento.»