“La terapia dovrebbe aiutare a stare bene, no? Ma allora perché non mi sento meglio?”
Questa è una delle domande più comuni – e più oneste – che può affiorare nel percorso terapeutico. Dopo settimane, a volte mesi, di colloqui, di riflessioni, di dolore messo in parole, non sempre si sperimenta quel senso di sollievo che ci si aspettava. E allora si entra in crisi: “Sta funzionando? Sto sbagliando io? È sbagliata la terapia?”

La risposta può sembrare controintuitiva, ma apre uno spazio nuovo e potente: la psicoterapia non serve (solo) a stare meglio. Serve a capire meglio. A conoscersi davvero. A incontrare zone di sé che magari sono rimaste in ombra per anni. E questo, all’inizio, può far male. Non perché la terapia sia una tortura, ma perché a volte scoprire la verità di sé è doloroso.

Il rischio di chiedere alla terapia un anestetico

Viviamo in una cultura che ci promette soluzioni rapide: una pillola per dormire, una guida in cinque passi per superare l’ansia, una tecnica per pensare positivo. In questo contesto, è facile avvicinarsi alla terapia con la stessa aspettativa: “Mi sento male, vado dallo psicologo, mi farà stare bene”. E quando questo non accade subito, nasce la frustrazione.

Ma attenzione: non è detto che stiamo andando nella direzione sbagliata solo perché ci sentiamo peggio. A volte la sofferenza è il segnale che qualcosa dentro di noi si sta muovendo. Che stiamo smettendo di nascondere, evitare, comprimere. È come aprire le finestre dopo anni: all’inizio entra polvere, entra aria fredda… ma solo così si può cambiare aria davvero.

La casa che brucia (e il ventilatore)

C’è un’immagine che rende bene questa dinamica: immaginate di trovarvi in una casa che sta andando a fuoco. Invece di scappare, chiedete ai pompieri un ventilatore per rinfrescarvi e riuscire a restare un po’ di più lì dentro. Assurdo, vero? Eppure, è quello che spesso facciamo con la sofferenza: non vogliamo lasciarla davvero, perché in qualche modo ci è familiare. Chiediamo al terapeuta sollievo, ma non cambiamento.

Cambiare, però, significa uscire da quella casa. E costruirne una nuova, diversa. Magari all’inizio più fragile, più incerta, ma che non sia destinata a bruciare ogni volta che iniziamo a viverci dentro con autenticità.

Foto da Unsplash di Sidney Latham

Quando il dolore diventa una prigione

Non sempre siamo pronti a lasciare andare il nostro dolore. A volte, paradossalmente, ci siamo affezionati. Fa parte della nostra identità, è una certezza, una costante. Rinunciarvi significherebbe non solo guarire, ma anche dire addio a una parte di noi che ci ha accompagnati a lungo.

Qui entra in gioco un nodo importante: non tutta la sofferenza porta crescita. C’è una sofferenza che ci spinge a evolvere – una sorta di “masochismo vitale” che ci aiuta a restare nel processo – e ce n’è un’altra che invece ci incatena, ci tiene fermi, ci fa girare in tondo. La terapia può aiutare a distinguere le due, e a trovare il coraggio di lasciare quella che ci imprigiona.

Non per stare meglio. Per essere più veri

Alla fine, la psicoterapia non promette di farci stare bene in modo semplice o immediato. Ma può offrirci qualcosa di ancora più prezioso: la possibilità di essere più veri. Più allineati con noi stessi. Più capaci di scegliere, di dire no, di costruire relazioni in cui non dobbiamo più fingere.

E sì, può darsi che a volte questo ci faccia sentire peggio, almeno all’inizio. Ma è un “peggio” che ha un senso, che ci spinge avanti, che ci chiede di cambiare rotta. È il disagio che accompagna la crescita, non quello che ci tiene prigionieri.

Quindi no, la psicoterapia non serve solo a farci sentire meglio. Ma può insegnarci qualcosa di più grande: a smettere di cercare anestetici e a cominciare a costruire una vita in cui possiamo finalmente respirare davvero.

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