Te la racconto io la violenza psicologica!

È una violenza senza parole o meglio ne ha così tante da far diventare sordomuti.

È una violenza che lascia segni indelebili, non visibili se non ai raggi ultravioletti di un amore gratuito, quello basato sulla relazione e sul sentire.

Rapina il pensiero. Lascia macchie malate e talvolta mortali, su un corpo senza lividi; uccide una parte di te e ciò che risulta imprescindibile quale esperienza fondante dell’esistenza, l’affetto, diventa un tormento incandescente, spaventevole per i ghiacciai dell’Himalaya dove ci si va a rifugiare.

Il vento distruttivo rapisce l’animo, lasciando un senso di profondo vuoto, di perdita del contatto con la realtà; si entra in un binario incandescente di bestemmie feroci rivolte a quel Dio che abita ognuno di noi.

È sbadata, talmente sbadata che lascia tracce di richiesta d’ aiuto laddove non è possibile rintracciarle. Lascia attorno a te un vuoto incendiario, tanto che la maggior parte degli amici e dei famigliari se ne va. Ma in realtà son sempre lì, sei tu che non li senti più, anestetizzata da quel dolore che non sa più nemmeno di dolore.

Ora ti racconto io cos’è la violenza. È stare qui e vedere tutto quello che hai fatto. Tutto quello che hai distrutto. Tutto quello che ti ho permesso di farmi. Ma non sei tu la violenza, è che ci siamo incontrati e dalla nostra unione è nata violenza. È “genetica”, viene da lontano, dal mio modo di stare nel mondo oltre che dal tuo; dal mio modo di perdere il pezzo delle parole, quello necessario alla salvezza. È la punizione della Grande Madre che toglie il senso compiuto e indipendente della parola, lasciandoti credere che a creare tutto questo caos sia tu stessa. E così, vieni ripudiata da un calcio sull’anima, da uno sputo in faccia e da urina calda, imprevedibile e puzzolente.

Dissolvermi nell’aria, rimanendo in essa per l’eternità, mi è sembrata spesso l’unica soluzione per ricordare quell’amore senza voce.

Ma talvolta è proprio il corpo a salvarti, quando decide di dar corpo a ciò che non riesci pensare. È lui che in realtà impazzisce, manifestando quel pensiero pieno di ostacoli laceranti e lacerati.

Sento o non sento il mio corpo, come un segnale apparentemente vile e meschino, lontano dai sotterranei dell’anima eppure egli stesso anima.

Solo così posso ricostruire il pensiero che si era perso in quell’aria fatta di ingannevole eternità fluttuante.

Talvolta il corpo si deve ammalare per essere più potente del pensiero silenzioso, pieno zeppo di parole e di voci, di urla e castighi, di lacrime e denti che si rompono a furia di muovere la bocca che, frenetica, vuole tagliare la violenza che esce dal mio corpo: si potrebbe scaraventare contro la mia inevitabile colpa, contro la mia presunzione di essere qualcuno o forse qualcosa. Invece sono nessuno se non una pessima donna e madre nonché un cappuccetto rosso abbandonato nel bosco. In realtà non esisto. Ma sono una zingara e una puttana, un’imbecille e devo mettermi le mani nel culo. Sono una cosa che non lavora, una fallita, misera e traditrice, perché ho trovato un segreto da tempo intuito: il vuoto e il nulla che gli appartengono.

Le porte sbattono, la voce è assordante, tanto che vorrei chiamare i carabinieri. Ma a nulla serve perché poi tutto si calma e tutto viene perdonato: la mia irrequietezza, la mia stanchezza, la mia depressione, la mia aggressività.

E meno male che ci sei tu che mi perdoni.

Tutto ricomincia. Sbaglio di nuovo, quando meno me lo aspetto, quando fuori è una bella giornata di sole e vorrei andare al mare e sto preparando le valigie. Tutto si accanisce su di me, che sono nessuno. Piena di fango, incapace di gestire la situazione. I fiori nel vaso vengono scaraventati con forza e ci sono i figli che guardano e mi sento impotente. Mi sento colpevole.

È una violenza non riuscire a reagire perché non so contro “cosa” dovrei reagire. Sono io? o l’altro? Ma chi è l’altro? Sicuramente chi ho davanti ma forse anche chi lui ha davanti. Ma anche chi io avevo davanti e lui aveva davanti. Impossibile prescindere dal proprio passato.

Confusione. È reale o no? È successo tutto questo? Poi un giorno muore qualcosa dentro di te. Muore sempre qualcosa, ma quel giorno è diverso. Forse l’ingresso della morte nella mia vita doveva essere violento perché me ne accorgessi, perché invecchiassi, perché mettessi i piedi per terra? La mia morte dove l’avevo lasciata?

Ora dopo un tempo necessario fatto di un lavoro su di me durante il percorso di psicoanalisi, cammino per le strade della mia città e il cemento caldo mi travolge. Così rientro in casa, questa volta la mia e posso ricominciare trascrivendo la melodia della mia vita. Cosa resta dunque di tutto questo? La sensazione di esser stata prigioniera forse anche di me stessa.

Resta la libertà, un tempo dimenticata, che ora lascia tempo e spazio per i miei pensieri e la possibilità di scrivere queste righe, con la paura sottile che qualcuno possa cancellarle, solo per il gusto di dirmi che non le ho mai scritte.

Resta chi resta ed è sempre stato lì, accompagnandomi.

Resta la paura del sole, del caldo; la consapevolezza che ho bisogno della giusta distanza per poter camminare tra le persone. Resta la difficoltà di sentire la fame d’amore e d’affetto e la consapevolezza di potermene nutrire senza perdermi in modo irreparabile.

Resta la fatica ma anche l’importanza di essermi riconosciuta in tutto questo, mettendolo al sicuro, ricostruendo parole e immagini nuove, profonde come le domande chiave che producono la germinazione della consapevolezza.

Resta comunque l’amore, quello gratuito che nessuno mi ha mai portato via.”

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