Mentre viene portata a spalle fuori dalla camera ardente allestita alla Casa delle Culture in via Arenula, dietro Campo de’ Fiori, sulla bara è adagiata una maglia col numero 11. Il feretro naviga tra un mare di folla. Tre giorni prima il corpo straziato di Pier Paolo Pasolini è stato ritrovato, all’alba, sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia.

Cinquant’anni fa, il 2 novembre 1975, la vita di Pasolini finiva tra gli sterpi e il fango dell’estrema periferia romana. Uno di quei luoghi che ha raccontato, vissuto, amato e odiato in egual misura. Sospeso tra arte e perdizione. Bagnato dalla spuma della nostra società. C’è solo un altro teatro in cui Pasolini ha sentito di potersi perdere in quella maniera. E, di mezzo, c’era quasi sempre un pallone.

Della sua passione per il calcio hanno già scritto molto. Della rinomata fede per il Bologna rimangono pagine e discorsi che ancora non sentono il peso del tempo. Il Pasolini “tifoso” è forse il guscio di noce in cui si risolvono l’intellettuale, il poeta, l’irrequieto, il regista e il peccatore. Ammesso che si possano scindere l’uno dall’altro.

Per Pasolini il calcio sembra essere un ritorno alle origini, al sorriso della fanciullezza. Un’interpretazione condivisa anche da Dacia Maraini. «Secondo me Pier Paolo andava avanti con la testa rivolta all’indietro. Inseguiva un sé stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone; quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato».

Pier Paolo Pasolini

Quel bambino che passa le estati a Casarsa, paese natale della madre, a un tiro di schioppo dal Tagliamento, è anche tra i primi a riscoprire l’intrinseco legame che unisce sport e cultura. Dopo la guerra è tra i fondatori della Società Artistico Sportiva Juniors Casarsa, dove la sezione sportiva viene finanziata tramite spettacoli ed altre attività culturali. L’esperienza sfuma nel ‘49, all’indomani di una condanna per corruzione di minori ed atti osceni in luogo pubblico. Verrà assolto in appello, il prato era privato. Su certe inquietudini l’ombra è sempre in agguato. Si sa.

Interdetto dall’insegnamento, ripudiato dal padre ed espulso dal Partito Comunista, Pasolini si trasferisce a Roma con la madre. Piazza Costaguti è il punto di partenza per scoprire la realtà di borgata. Un mondo di mezzo dove sperimenta, in campo e nella vita, lui che giocava sulla fascia opposta, la solitudine dell’ala destra. Decenni prima che Acitelli ne faccia il primo libro di poesie dedicate al calcio.

L’immaginario pasoliniano fatto di occhiali scuri e volto scavato prende forma in quegli anni. Romanzi, cinema, poesie e articoli si alternano a supreme incazzature per le sconfitte del Bologna in trasferta nella Capitale. Gli spalti dell’Olimpico per Pasolini sono un crogiuolo di umanità da cui distillare ampie porzioni delle pagine vergate nel suo viaggio ai bordi del pallone.

È in quel periodo, a cavallo tra i Sessanta e Settanta, che Pasolini gode nello schierarsi contro gli intellettuali di sinistra che accusano il calcio di allontanare i giovani italiani dall’attività politica. Pure Berlinguer la pensa come lui. Denuncia il qualunquismo con cui i media trattano i fenomeni che stanno alla base della passione popolare. Si immerge fino al midollo e ne esce con l’idea che “Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori”. Il football viene equiparato ad un “sistema di segni”, una lingua a sé basata sul podema, l’idea di un uomo che calcia un pallone. Un concetto unificante; sarà poi il percorso socio-culturale dei popoli a definire le varietà di linguaggio calcistico.

Al di là dei teoremi, quello col pallone per Pasolini è un rapporto più fisico che mentale. Ne assapora la capacità di scatenare pulsioni primordiali, senza la superflua intermediazione di quell’esegesi intellettuale che paluda molte altre forme d’arte, esclusa la musica. Una leva di parificazione sociale. Pasolini sente il calcio come certi fantasisti, incapaci di separarlo dalla vita, costantemente in bilico tra gloria e abisso.

E allora è chiaro che la mente può spaziare tra questo o quel campione irrequieto. Un Diego Armando Maradona che volteggia come un trapezista tra vette inarrivabili e cadute oltre la rete di sicurezza. Un cervello ontologicamente incapace di mediare, come Eric Cantona ci ha dimostrato ieri, in campo, e continua a fare oggi, fuori. L’impossibilità di lasciarsi alle spalle i propri demoni che ha accompagnato tutta la breve parabola calcistica di Robin Friday.

Robin Friday

Anche il fuoriclasse di Apton giocava all’ala e, esattamente come Pasolini, ha sempre lasciato che il buio fuori dal campo contaminasse vita, opere e percorsi. Contribuendo ad esaltarne il talento e, al tempo stesso, accorciando le tappe verso una fine prematura. Alcol, risse e droga, tanta, il primo. Scandali vari e accuse di pedofilia il secondo. Entrambi disinteressati alla monumentalizzazione di se stessi. Il capitolo “Il pratone della Casilina” dall’ultimo romanzo postumo, Petrolio, valga come esempio. Robin Friday lo trovano senza vita in una casa popolare, dopo un infarto per overdose, a 38 anni. Pasolini finisce sotto le ruote della sua stessa auto, nel fango e nel buio di una notte senza luna.

Ci sono uomini che sfuggono a tutto. Ai difensori arcigni, alle opinioni e al concetto stesso di bene o di male. Agiscono, vivono. Lasciano a noi l’eventuale sforzo di interpretarli e giudicarli. Certi uomini sfuggono pure a loro stessi e, forse, sanno pure vedere un po’ più avanti. Per questo ci stanno sulle palle. Perché se ne fregano di cosa pensiamo, capiscono prima come andrà a finire e hanno la forza per scendere dal treno.

“Diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi… la strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come”.

Pasolini Pier Paolo, 1975.

© RIPRODUZIONE RISERVATA