Morta e viva, contemporaneamente. Esattamente come il famoso gatto nell’altrettanto celebre paradosso di Schrödinger. Tale è la nostra Serie A di calcio. A prescindere da quante squadre vi partecipino.

Perdonate l’incipit ma, personalmente, trovo il dibattito sul numero di partecipanti alla massima serie calcistica nazionale alquanto sterile. Buono al massimo per riempire qualche pagina di giornale, dal momento che la questione non viene osservata nel suo quadro più ampio. Per farlo servirebbero gli Stati Generali del calcio e dello sport italiano e, finché non saranno convocati, la Serie A si troverà nella medesima condizione del suddetto felino.

Provo a spiegarmi meglio, partendo dalla notizia battuta un paio di giorni fa. La Lega dei club di Serie A si è riunita e ha votato per mantenere a 20 il numero di squadre del proprio format. Non è passata, quindi, la riduzione a 18 richiesta, e votata, solamente da Juventus, Inter, Milan e Roma. Riforma che era stata sostenuta anche dal presidente federale Gravina.

Risultato assolutamente scontato perché, sembra ovvio ma è bene ribadirlo, il calcio professionistico è prima di tutto un business. Di conseguenza, deve produrre introiti e dividendi per chi si butta nell’arena. Detto questo, magari dovremmo ragionare di più su come lo vogliamo strutturare questo business. Perché, se fino a una ventina di anni fa si bruciavano miliardi senza proferire verbo, oggi la coperta è parecchio più corta.

Il gatto di Schrödinger, vivo e morto nello stesso momento

I grandi club che parlano di troppi match da disputare durante l’anno e dei rischi per l’incolumità dei giocatori sono semplicemente preoccupati di dover rinunciare a parte del proprio “capitale umano” a causa degli infortuni.

Il che sarebbe pure sacrosanto, se il motivo non fosse solo e puramente economico: non ci sono i soldi per rose lunghe e competitive come in passato. Ma, fidatevi, se domani intervenisse una grande media company pronta a riempire di denaro contante le casse delle società con diritti televisivi in stile Premier League, metterebbero partite pure la notte di San Silvestro. Tra lo spumante e le lenticchie.

Anche le piccole, dal canto loro, ragionano solo sulle proprie necessità contingenti. Chi mai rinuncerebbe a una fetta della torta più succulenta? Soprattutto a una tavola dove il livello richiesto per sedersi (leggasi “salvarsi”) è sempre più basso. Tranquillità che per metà club arriva verso fine febbraio, con decine di partite inutili, e gestibili, da lì in poi.

Senza andare troppo lontano, basta guardare all’Hellas. Dopo aver svenduto in due anni qualsiasi essere senziente dotato di scarpe bullonate, dovesse arrivare la seconda salvezza consecutiva… chi si sognerebbe mai di abbandonare un business dove si resta sul mercato disinvestendo e creando buchi di bilancio. Che poi, oggi tocca ai gialloblù, ma gli esempi si sprecherebbero.

Senza far troppo i moralisti, è ovvio che ognuna delle due fazioni ha le proprie ragioni che, in ottica aziendale, non ci sogneremmo mai di discutere. Stavolta hanno vinto i piccoli. Ma si tratta di una piccola schermaglia tattica. Nessun avanzamento strategico. Roba da battaglie dell’Isonzo. Poche decine di metri conquistati al prezzo di migliaia di caduti. Qui i morti non ci sono, tranne il gatto, se volete, e nessuno che si azzardi ad aprire quella benedetta scatola.

Dentro la scatola ci sta l’intera gestione del calcio. E la sua visione futura. Della quale dovremmo interessarci tutti. Anche i puristi del “calcio malato” che hanno smesso di seguirlo da X anni. Ricordiamoci, infatti, che la massima serie del nostro pallone è l’asset che, praticamente da solo, tiene in piedi l’intera macchina dello sport italiano. Ecco perché la sua salute impatta su tutti. Dal baseball all’hockey, passando per la pallavolo e finendo pure con le bocce.

Il fatto è che, come in tanti altri ambiti, pure il calcio è lo specchio del nostro paese. Provate ad andare in una decina di PMI italiane a parlare di piani di sviluppo condivisi, di un settore che cresce dando a tutti la stessa competitività e mettendo in comune informazioni, dati e soluzioni. Provate a chiedere a un imprenditore di condividere un’innovazione con i player del rispettivo mercato perché, a seguito di un’analisi a lungo termine, i benefici del farlo risultano superiori al vantaggio competitivo acquisito nei primi due anni tenendosi tutto per sé. Magari qualche illuminato lo trovate ma, nella media, ognuno guarda prima di ogni cosa al proprio orticello. Anche qui, nulla di male eh. Però non stupiamoci se poi arrivano i fondi internazionali a fare razzia. O se in Indonesia non sbavano per mettersi davanti alla tv a guardare Genoa–Fiorentina.

A onor del vero, e per restare al tema con cui sono partito, il dibattito sui troppi match durante la stagione interessa anche leghe sportive molto più avanzate. Penso all’NBA e alla MLS, che fanno i conti con un interesse sempre più flebile per i match teletrasmessi in regular season. Soprattutto se paragonati all’NFL che, stando solo agli share televisivi, fa un campionato a parte. Basta una rapida ricerca online per rendersi conto, però, della differente idea di “lega sportiva” alla base di ogni loro ragionamento. Un blocco unico di club che comprende l’importanza strategica di muoversi assieme.

E il nostro calcio? Qual è la strategia che sta mettendo in campo? A giudicare dagli ultimi anni, direi un classico dei nostri schermi: prendi tutti i soldi che puoi e al resto ci penseremo (magari) dopo. Un evergreen che qui non passa mai di moda. Dalla politica giù fino a chi tira le fila dello sport.

Lo stadio semivuoto di Riyad, in diretta tv, durante le semifinali di Supercoppa

Fuor di metafora, direi che la recente Supercoppa giocata in Arabia Saudita ne sia l’immagine suprema. Lo stadio semideserto dei primi due match e i cori registrati sono stati lo specchio del fallimento.

Di una dirigenza, di un progetto e di un intero movimento. Manager e filibustieri che hanno siglato contratti senza avere, poi, nemmeno la decenza di curare la dignità del proprio prodotto. Mandato allo sfacelo in diretta televisiva. Qui il gatto non è solo morto, siamo al vilipendio di cadavere.

Eppure, nonostante lo sforzo di abbruttirlo giorno dopo giorno, il pallone si muove. Resta lo sport più popolare al mondo, un formidabile catalizzatore di investimenti e potere. Il calcio italiano, pur avendo perso il ruolo di primattore detenuto da metà anni ‘80 fino al primo lustro del nuovo millennio, resta nella top five globale. È vivo, insomma, e, ci fosse la volontà di guardarsi in faccia seriamente, potrebbe anche muovere qualche passetto in avanti. Certo, per farlo nella maniera più adeguata dovremmo scomodare Stato, burocrazia, investimenti, riforme, interessi, infrastrutture, stadi e capitali. Quel “fare sistema” che sentite sempre citare ma che, raramente, viene messo a terra.

Dovessi, infine, azzardare una previsione, cosa immagino per il pallone italico? Vi dirò, un lumicino di speranza non si nega mai a nessuno. Sono però ancora in troppi, tra chi tiene tra le mani il giocattolo, quelli che hanno trovato la propria dimensione nel galleggiare. In un infinito equilibrismo di poteri rumorosi ma, in definitiva, immobili e inermi da anni. Morti e vivi, assieme. Per la sola soddisfazione di Schrödinger, forse.

Non avrei mai pensato che un paradosso potesse tornarmi così utile.

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