Il ruolo di psicologo che collabora con il Ministero della Giustizia all’interno del carcere presenta delle sfide peculiari. Tra queste, una in particolare balza all’occhio di professionisti e non addetti ai lavori: come conciliare una professione che si basa sulla sospensione del giudizio (la famosa epoché di Sesto Empirico) con il lavorare in un ambito dove il “paziente”, in quanto detenuto, è stato riconosciuto colpevole di fronte agli occhi della Giustizia? Una simile difficoltà risulta ancor più complicata nel caso di quei reati considerati riprovevoli o “imperdonabili”.

È un problema non irrilevante in quanto ha profonde ripercussioni sul modo nel quale viene condotto il mandato dello psicologo in carcere che prevede di favorire nel reo la cosiddetta “revisione critica di reato”, ossia di aiutare la persona a comprendere il disvalore degli illeciti compiuti.

Ribadire alla persona che ha sbagliato perché “è scritto nella condanna” non è certo la via per giungere a una profonda comprensione dell’erroneità del proprio reato. Simili asserzioni, nel migliore dei casi, tendono semplicemente a creare detenuti o pregiudicati che si pentono solo di essere stati incarcerati. Tuttavia, ammettere di aver sbagliato a causa delle ripercussioni personali derivanti dalla pena inferta è ben diverso dal riconoscere la sofferenza che il proprio illecito ha cagionato ad altre persone.

Il reato, come descritto nelle carte giudiziarie e in molti manuali forensi, è un “fatto reato”. Ciò è innegabile da un punto di vista giuridico, ma è anche un evento che si colloca nella vita di una persona e in quanto tale catalizza emozioni, pensieri, vissuti ed esperienze uniche per la persona che lo ha commesso. È proprio questo significato unico e irripetibile che deve essere portato alla luce con il detenuto: comprendere come quel reato si colloca nella sua vita.

È proprio qui che è bene ricordare che comprendere non significa giustificare.  Questo perché cosa il reato ha significato per la persona può assumere delle forme che mettono alla prova anche il più ferreo e ligio praticante della tanto preziosa epoché. È, infatti, proprio in queste occasioni che emergono alcune delle frasi più crude e dure: «l’ho sfregiato per fargli capire che solo io lo amo per quello che è»; «La colpivo per il suo bene e perché stesse a casa a fare la madre al posto di uscire con gli amanti»; «Non ho violentato nessuno, era solo un modo di dimostrare affetto.»

Giungere quindi a una profonda revisione critica di reato significa, in ultima analisi, capire anche le ripercussioni che il proprio gesto ha avuto sugli altri. Solo così è possibile giungere alla realizzazione che impedire al partner di uscire con amiche o amici non è per il suo bene, ma è, come tanti altri gesti abusanti, una asfissiante modalità di controllo violenta che priva di libertà l’altro.

L’essenza ultima della revisione critica di reato è, quindi, l’empatia: immedesimarsi nell’altro e comprendere il dolore provocato.

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