La seconda edizione di Poeti Sociali, la rassegna che porta a Verona voci contemporanee capaci di unire parola e impegno civile, ha ospitato nella Sala della Gran Guardia una delle più seguite giornaliste italiane degli ultimi anni: Cecilia Sala, autrice per Chora Media del podcast Stories e fresca di pubblicazione del libro I figli dell’odio (Mondadori). Trent’anni appena compiuti, ma già un’esperienza che attraversa guerre, rivolte, confini, e un modo di fare giornalismo che rovescia la distanza della geopolitica per restituire la centralità alle persone.

“Mi interessa relativamente la geopolitica — ha esordito Sala, che dopo il saluto iniziale dell’Assessora alla Cultura Marta Ugolini ha risposto alle domande del direttore scientifico di Poeti Sociali Daniele Rocchetti —. Mi interessano le persone dentro quei contesti, le loro storie, le scelte che fanno anche nei momenti più drammatici. Spesso la geopolitica pretende di spiegare tutto con logiche di potere, di economia o di storia, ma il mondo è fatto di biografie, non solo di equilibri.”

Un approccio che si ritrova anche nel podcast che negli ultimi anni ha reso familiare la sua voce a un pubblico vasto e giovane. “Cerco storie vere, umane, che dentro di sé racchiudano qualcosa di universale. Ogni volta che trovo una persona capace di raccontare cosa significa vivere in un conflitto o sotto una dittatura, quella storia vale più di qualsiasi analisi geopolitica.”

“I figli dell’odio”: un titolo amaro e necessario

Cecilia Sala racconta di aver capito presto, “attorno ai quattordici anni”, che il suo interesse non era tanto per la cronaca in sé, ma per chi la vive. Dopo L’incendio, il libro che attraversava Ucraina, Medio Oriente e Afghanistan, Sala è tornata in libreria con I figli dell’odio, un viaggio dentro una generazione che cresce tra radicalizzazioni, traumi e desiderio di libertà.

“Il titolo — spiega — viene da una constatazione: in molti luoghi che ho visitato, i giovani sono cresciuti in società in cui l’odio è al potere. In Israele e in Palestina, ma anche in Iran, in Siria, in Afghanistan. Sono figli di un clima che hanno ereditato, ma spesso sono anche quelli che cercano di spezzarlo, o che almeno provano a comprenderlo.”

Sala apre il libro con una scena che ha colpito molti lettori: una manifestazione in Israele, con una ragazzina di tredici anni che regge uno striscione su cui si legge “Se tua moglie è araba cacciala insieme ai figli che ti ha dato”. “Mi ha colpito — racconta la giornalista — che una bambina nel 2025 potesse avere paura dei matrimoni misti o sognare la segregazione etnica. Da lì ho cominciato a scavare, e ho scoperto il mondo dei giovani delle colline: adolescenti radicalizzati, spesso considerati un problema anche dall’esercito israeliano, che aggrediscono soldati e invocano leggi religiose in un paese democratico.”

Secondo i dati citati nel libro, il 70% dei giovani israeliani tra i 18 e i 24 anni si dichiara contrario alla soluzione “due popoli, due Stati”, a dimostrazione di come il conflitto abbia mutato la percezione stessa del possibile. “In Palestina, invece — continua Sala — i ragazzi che incontro sono convinti che la diplomazia sia fallita. Ma anche lì l’alternativa è tragica: credere che la lotta armata possa essere la via è un’altra forma di illusione, un’illusione che però si paga con la vita.”

Ebrei, palestinesi, iraniani: il filo delle generazioni

Nel libro la giornalista intreccia le voci di giovani israeliani, palestinesi, iraniani, mostrando come le linee di frattura non coincidano più con i confini politici. “In Iran — dice — i ragazzi sono più liberali e meno conformisti dei loro padri; in Israele, al contrario, spesso più religiosi e più radicali. È il contrario speculare. È come se l’odio avesse trovato forme diverse per sopravvivere in ciascun contesto.”

Racconta di Ebron, città simbolo della Cisgiordania, dove oggi vivono 200.000 arabi e appena 700 coloni ebrei, e che pure rappresenta un epicentro di tensione e simbolismo. “Ebron è il laboratorio dell’occupazione — spiega Sala —. È qui che nel 1967, dopo la guerra dei Sei Giorni, nacque il primo insediamento civile israeliano. Un piccolo gruppo di famiglie che si presentò con lavatrici e frigoriferi per ‘restare 48 ore’ e che da allora non se n’è più andato. Da lì è cominciato un processo che ha trasformato la Cisgiordania in una mappa a macchie, con gli insediamenti che rendono oggi quasi impossibile immaginare due Stati distinti.”

La giornalista descrive anche la logica messianica che ispira parte del movimento dei coloni: “Per alcuni, la conquista non è solo politica, ma religiosa. Non abbiamo vinto — dicono — perché siamo stati bravi, ma perché Dio ci ha voluti lì. È un ragionamento che avvelena la politica israeliana da decenni.”

La vittoria maledetta

Sala cita uno storico israeliano che definì la vittoria del 1967 “una vittoria maledetta”, perché “aveva reso Israele più forte, ma anche più fragile, condannandolo a occupare terre e popoli”. “È un tema — osserva — che torna in tutte le guerre: quando vinci troppo, ti condanni a non sapere più cosa significa la pace.”

Nella stessa Ebron, nel 1994, un terrorista ebreo aprì il fuoco nella moschea di Abramo, uccidendo decine di palestinesi in preghiera. “Oggi — aggiunge Sala — ci sono famiglie che portano i figli a fare foto sulla sua tomba. È l’immagine più potente di cosa vuol dire crescere nei figli dell’odio.”

L’incontro alla Gran Guardia si è concluso tra le domande dei tanti giovani presenti. “Mi fa piacere vedere tante persone della mia età — ha detto Sala — perché significa che c’è ancora chi vuole capire, non solo schierarsi. In un’epoca in cui tutto è semplificato e polarizzato, il compito del giornalismo è tornare a raccontare la complessità.”

In un momento in cui il Medio Oriente è tornato al centro della cronaca internazionale, la voce di Cecilia Sala suona come necessaria: non quella dell’esperta che spiega il mondo dall’alto, ma della testimone che lo attraversa con curiosità, rispetto e misura. “Le guerre — ha concluso — non sono mai solo guerre. Sono storie di persone che cercano di restare umane mentre tutto intorno disumano. È lì che bisogna guardare, se vogliamo davvero capire.”

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