Non è la prima volta che Barbara Schiavulli decide di spingersi là dove i conflitti si fanno più bui e i riflettori più deboli. Inviata di guerra per quasi trent’anni, direttrice di Radio Bullets, voce indipendente del giornalismo italiano, ha raccontato Afghanistan, Iraq, Siria, Palestina, Yemen. Questa volta, però, non ha scelto soltanto di scrivere o registrare. Ha scelto di esserci.

Da giovedì sarà anche lei imbarcata sulla Global Sumud Flotilla, una missione che ha raccolto oltre ottanta imbarcazioni e centinaia di persone – medici, avvocati, attivisti, artisti, giornalisti – con un obiettivo dichiarato: rompere simbolicamente il blocco su Gaza, portare un segnale di vicinanza a un popolo che da mesi subisce bombardamenti, fame, isolamento.

Per Schiavulli non è un gesto qualunque. È il segno che il giornalismo, di fronte a un genocidio raccontato “in diretta”, non può più limitarsi a osservare e denunciare. Deve trovare altre forme, deve contaminarsi con l’impegno civile, deve trasformarsi in presenza fisica, persino in rischio personale.

Barbara Schiavulli – Foto dal profilo Facebook della giornalista

Schiavulli, sono quasi 700 giorni che nessun giornalista indipendente entra nella Striscia. Cosa significa per lei?

«Significa uno strappo profondo. Solo pochi, scelti, embedded con l’esercito israeliano, sono stati fatti entrare, lasciandosi penetrare da una delle più serrate propagande mai viste in un conflitto. Per chi come me ha raccontato la Palestina per 28 anni, restare fuori è come non poter entrare in Afghanistan o in Venezuela: Paesi che escludono chi non piega la schiena al potere.»

Cosa l’ha spinta ad aderire al progetto di Global Sumud Flotilla?

«Già due volte negli ultimi mesi le flottiglie hanno provato a forzare il blocco. E due volte ho pensato: avrei voluto esserci. Perché arriva un momento in cui scrivere, raccontare, registrare non basta più. Il giornalista è testimone, ma l’essere umano che è in me non può solo assistere.»

Che differenza c’è rispetto alle “flottiglie” precedenti?

«La grande differenza questa volta è che non si tratta di una o due barche con un manipolo di persone coraggiose. Non sono neanche dieci o venti. Sono più di 80. Sono centinaia di persone. È una forza storica.»

Il 7 ottobre 2023 ha cambiato tutto?

«Sì, ha segnato un punto di non ritorno. Israele ha costruito, mattone dopo mattone, una società pronta ad accettare tutto in nome della propria difesa. Ma schiacciare un popolo per vivere non è democrazia: è apartheid.»

Lei parla di genocidio

«Oggi assistiamo a un genocidio in diretta: fame, bambini morti, medici e giornalisti uccisi, operatori umanitari arrestati, città cancellate. E intorno un mondo civile che guarda, si indigna… e poi torna a casa. Come se fossimo anestetizzati, incapaci di vedere, perché vedere significherebbe agire.»

Cosa la colpisce di più di questo scenario?

«Lo scollamento totale tra società e potere. I governi non perseguono più il benessere delle persone, ma interessi economici, militari, di élite. Le leggi internazionali sono saltate, chi indaga sui crimini viene perseguitato. Viviamo in un mondo distopico, dove lo Stato non è più il popolo ma un’entità a sé. Ed è spaventoso.»

E allora, a che serve ancora raccontare?

«Serve, sempre. Perché la società civile, prima o poi, si riprenderà quello che le è stato rubato: le redini del proprio destino, fatto non di confini e guerre, ma di accoglienza, cultura e giustizia.»

Barbara Schiavulli – Foto dal profilo Facebook della giornalista

Imbarcarsi sulla Flotilla è una scelta rischiosa. Perché lo fa?

«Salire su una barca sapendo che potresti essere fermata da uomini armati in acque internazionali non è una scelta leggera. Ma ci sono momenti in cui non basta fare la cosa giusta. Bisogna fare quello che si deve. Per noi e per le generazioni future.»

È un atto politico, oltre che umano

«Sì. Opporsi con la voce, con il corpo, a ciò che accade da ottant’anni contro un popolo. Non dimentico le altre catastrofi – Afghanistan, Sudan, Yemen, Myanmar – ma ora possiamo essere qui.»

Chi partirà insieme a lei?

«Centinaia di persone: medici, avvocati, artisti, giornalisti, attivisti. Ognuno con la propria storia, ma con un obiettivo comune: rompere un frammento di ingiustizia.»

Riuscirete nell’impresa?

«Non lo so. Forse non importa. Quello che conta è provarci. Perché i palestinesi devono sapere che non sono soli. E il mondo deve sapere che non siamo condannati all’impotenza. Che c’è ancora chi ha il coraggio almeno di provare.»

Foto da Unsplash di Ahmed Abu Hameeda

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