Barbara Schiavulli è corrispondente di guerra con una ventennale esperienza. Scrive per alcuni importanti media nazionali, come La Repubblica e L’Espresso, ma soprattutto è fondatrice e direttrice responsabile del progetto RadioBullets, che da anni racconta in modo indipendente ciò che avviene in Italia e nel mondo.

Ospite insieme a Laura Silvia Battaglia della prima edizione del Festival del Giornalismo di Verona, organizzato dalla nostra testata, Schiavulli è oggi alla vigilia di una nuova missione in Afghanistan, che racconta per i suoi lettori dal 2001, dall’anno cioè dell’invasione americana avvenuta in seguito all’attentato alle Twin Towers di New York. Da allora è stata nel Paese asiatico decine di volte, per raccontarlo attraverso i volti e le storie delle singole persone incontrate sul suo cammino, vittime innocenti di una tragedia che si rinnova senza sosta.

Il 9 agosto si imbarcherà su un aereo e, attraverso le pagine del suo giornale online, ci aggiornerà sull’attuale situazione dell’Afghanistan, abbandonato al suo destino da quando le truppe “a stelle e strisce” hanno deciso si lasciare, il 15 agosto di un anno fa, quei territori. Dove hanno governato per anni ma dove nel frattempo non è stata creata una valida alternativa ai Talebani, i quali hanno immediatamente approfittato del vuoto di potere per riconquistare Kabul. Con conseguenze tragiche per il popolo, soprattutto per le donne e le bambine.

Schiavulli, partiamo dall’ultima volta che è stata in Afghanistan, lo scorso gennaio. Che situazione aveva trovato all’epoca?

«Sono stata in Afghanistan tre volte in meno di un anno: a giugno 2021, prima del ritorno dei Talebani di metà agosto, e poi a settembre, quando avevano già preso il potere. Infine a gennaio di quest’anno. Già in autunno la situazione stava rapidamente degenerando. Inizialmente si parlava di crisi politica e sociale. Poi pian piano sono stati chiusi i confini, scattate le sanzioni internazionali contro i Talebani, bloccata la valuta sui conti esteri (e stiamo parlando di circa 7 miliardi di dollari depositati all’estero) e sospeso il 40% degli investimenti da parte di investitori stranieri. In poche parole ora siamo in piena crisi economica. Stiamo parlando di un Paese che conta cinque milioni di sfollati su una popolazione totale di 30 milioni. Ci sono per la maggior parte di loro enormi difficoltà a reperire cibo e il 97% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Dieci milioni sono già in situazione di “malnutrizione acuta”. Il problema è che continuano a nascere bambini che vengono mal nutriti fin dall’inizio della loro vita e purtroppo oltre ai problemi fisici si sviluppano anche enormi problemi di natura cognitiva e mentale, con conseguenze per il presente e per il futuro davvero incalcolabili.»

Qual è la strategia dei Talebani per far fronte a quest’emergenza?

Barbara Schiavulli

«In questo panorama i Talebani continuano ad andare in Medio Oriente, ma anche in Uzbekistan per chiedere il riconoscimento da parte delle altre nazioni e aiuti economici per sfamare il popolo, aiuti che però non vengono dati perché In realtà si sa bene che i Talebani ne farebbero un altro uso. Nel frattempo hanno ulteriormente implementato il loro progetto di escludere le donne dalla vita sociale, ma non solo. Ad esempio impediscono alle vedove di lavorare, donne che magari hanno quattro o cinque figli da sfamare e per loro questa esclusione diventa un problema enorme. A gennaio 2022, quando sono tornata l’ultima volta, la situazione era catastrofica, con un rapido aumento dei matrimoni precoci e del numero delle bambine vendute. Secondo alcune stime si parla di 140mila minori scomparsi in non si sa quale traffico. Non mandando, inoltre, le ragazzine a scuola dopo gli undici anni si crea un grande vuoto culturale, che era stato abbastanza colmato, almeno nelle grandi città, nel periodo in cui c’erano gli americani, ma ora è tornato di nuovo il buio.»

Cosa si aspetta di trovare, ora, ad agosto 2022?

«Niente di buono. E proprio per questo quello che a me interessa è tenere acceso un riflettore sull’Afghanistan. La guerra in Ucraina è diventata una sorta di “monologo” per i giornali. Questo non è accettabile. Molti Paesi nel mondo stanno crollando. Ci sono nazioni come lo Sri Lanka, il Laos, il Venezuela, in cui la situazione economica già precaria è peggiorata ulteriormente con la pandemia e la guerra. Se si continua a parlarne magari si riesce a fare un po’ di pressione sull’Occidente, che ha già tradito l’Afghanistan, un Paese dove la cultura è considerata un crimine e dove c’è una vera e propria apartheid di genere. Le donne afghane devono sapere, al contrario, che non sono sole. La gente lì viene arrestata perché i figli sono riusciti a scappare e i genitori vengono minacciati di morte finché non ritornano. Ecco perché bisogna raccontare ciò che sta avvenendo.»

Cosa che però non sarà particolarmente gradita dai Talebani. Ha messo in conto anche un suo rischio personale nell’andar là?

«L’Afghanistan è il Paese più pericoloso al mondo. Oggi, però, i Talebani stanno trattando con l’Occidente per ottenere il riconoscimento internazionale e i finanziamenti necessari per la loro politica. Fare del male a un occidentale non rappresenta per loro una grande convenienza e su questo faccio grande conto. Certo, poi è chiaro che i Talebani non sono solo quelli della “dirigenza”. Se becchi ad esempio un “cane sciolto”, che non ti conosce e che non è al corrente delle strategie di Kabul, magari qualcosa si rischia. Ovviamente adotteremo tutte le precauzioni necessarie per lavorare in sicurezza. Ho avuto un fixer afghano per circa dieci anni, ma a giugno dell’anno scorso siamo riusciti a farlo uscire e ora vive negli Stati Uniti con la sua famiglia. Il problema si è creato a settembre 2021, ma poi sono riuscita a trovarne uno bravissimo e l’ho immediatamente ingaggiato. Fra l’altro con la paga di quei quindici giorni di lavoro i fixer afghani possono mantenere la propria famiglia per almeno sei mesi. Anche per questo è importante andare là periodicamente»

Quali saranno le tappe della sua missione?

«Farò base a Kabul, ma poi ci sposteremo di giorno in giorno. Ho già in programma degli appuntamenti e delle visite che voglio assolutamente fare, già organizzate. Poi sul momento si capirà anche se ci sono posti da visitare o no. Anche l’ultima volta ho incontrato diversi personaggi fra i Talebani e questa volta ho in mente di fare un pezzo sulla società civile e incontrare il direttore della Commissione Governativa per la Cultura. Non è escluso che punti anche a incontrare qualche ministro, anche se a dirla tutta quello che dicono i Talebani in generale è davvero poco interessante. Quello che mi interessa è dare voce a chi non ce l’ha.»

Perché è importante tenere alta l’attenzione su ciò che avviene in quel Paese?

«Il mondo è tutto legato. Qualunque cosa succeda in Afghanistan ha comunque delle ripercussioni sugli altri Paesi e non solo quelli confinanti. La guerra in Ucraina, con la conseguente crisi del gas e del grano, lo rende evidente, ma ci sono cose anche molto più piccole che hanno conseguenze su di noi. La crisi dipende dalla narrazione: se siamo stati capaci di accogliere migliaia di ucraini diventa ridicolo parlare di invasione se arrivano 80 persone su un barcone. Dobbiamo regolarci sui profughi che non possono essere catalogati in profughi di serie A e profughi di serie B. Gli ucraini sono esattamente sotto le bombe come lo sono stati in passato gli afghani o oggi certi profughi che arrivano dall’Africa. Che poi la gente umanamente si possa sentire più vicina a un popolo più che a un altro lo capisco. Ma l’Italia aderisce a delle convenzioni internazionali e se ne salvi uno devi salvarli tutti.»

In questo senso perché è importante sostenere i progetti editoriali come Radiobullets?

Un’altra immagine di Barbara Schiavulli

«Radiobullets è una lotta continua. Il mainstream è carente sugli Esteri. Noi vorremmo insinuarci in questo vuoto e raccontare in modo indipendente ciò che avviene, il che è ciò di cui il nostro Paese ha bisogno. Il giornalismo politico va bene ma fino a un certo punto. Non è più sufficiente per le persone. Il giornalismo dovrebbe essere al di sopra di tutto o contro tutto. Questo è quello che cerchiamo di fare noi. Di dare un esempio. Essendo partiti dal basso, nessuno di noi giornalisti aveva una lira. La cosa migliore da fare era quella di chiedere l’aiuto ai lettori. L’ideale sarebbe chiedere a 3mila persone un abbonamento di 50 euro all’anno. Sarebbe sufficiente per poter affrontare le spese e sostenere l’attività del progetto. Non siamo ancora a questo livello, ma solo nell’ultimo anno siamo andati quattro volte in Afghanistan, una in Colombia e una in Ucraina per raccontare sul campo ciò che stava avvenendo in quei luoghi. E questo perché ci sono persone che hanno donato i propri soldi per sostenere la nostra causa e continuare a leggere i nostri articoli. Ma se esiste in Italia gente disposta a pagare 100 euro per mandare me in Afghanistan e magari non vuole pagare un euro e mezzo per un giornale mainstream, qualche domanda sul giornalismo in genere ce la dovremmo fare.»

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