Pippo Baudo, il maestro della tv di qualità
La scomparsa di uno dei protagonisti della televisione italiana ci porta a riflettere sul ruolo dei media. E a interrogarci sul rapporto tra comunicazione e rispetto del pubblico.

La scomparsa di uno dei protagonisti della televisione italiana ci porta a riflettere sul ruolo dei media. E a interrogarci sul rapporto tra comunicazione e rispetto del pubblico.
“Pigliamoci a pesci in faccia. Sputiamoci in faccia. Facciamo tutto quello che possiamo, così salviamo il pubblico… Non è vero! Così il pubblico lo imbarbariamo. Così lo fottiamo. Così il pubblico lo fottiamo. E avremo un’Italia di merda”.
Queste parole di Pippo Baudo, nel 2008, a margine del Festival di Sanremo, possiamo considerarle il testamento dell’ultimo genio della televisione di qualità.
Pippo Baudo è morto il 16 agosto 2025, mentre il panorama dei media – con i millanta canali tv, Internet, la stessa Intelligenza Artificiale – si presenta molto diversa dalla tv italiana di cui il presentatore siciliano è stato un esponente di punta.
Era la televisione italiana, quella che faceva Pippo Baudo, preoccupata di rispettare il pubblico, di farlo pensare, in qualche modo di “educarlo”.
Alla base vi era l’idea che i media avessero – come del resto hanno – una funzione educativa.
Che i giornali, la tv, i media in generale abbiano anche una funzione educativa ce lo dicono Bill Kovach e Tom Rosenstiel, autori del saggio The Elements of Journalism, editrice Penguin Random House LLC, New York, 2021.
Il giornalismo ha un ruolo educativo, poiché il giornalismo deve “aiutare le persone a imparare, non solo fornire informazioni”, dicono Kovach e Rosenstiel.
Ebbene, la stessa concezione – riferita alla tv dell’intrattenimento, dello spettacolo e dei talk-show – apparteneva, molti anni prima del saggio sul giornalismo, a Pippo Baudo.
Va ricordato che la televisione italiana nasce – con la Rai a metà Anni Cinquanta del Novecento – anche come missione educativa: da Telescuola e Non è mai troppo tardi alla neo-televisione commerciale.
In mezzo, c’era un ponte robusto e in gran parte sottovalutato: la “pedagogia pop” di Pippo Baudo, che ha insegnato all’Italia televisiva la grammatica dello spettacolo, dell’evento rituale e del gusto condiviso.
La notizia della scomparsa di Pippo Baudo (Militello in Val di Catania, 7 giugno 1936 – Roma, 16 agosto 2025) ha riaperto un dossier cruciale per gli studi sui media: non tanto su “quanto” Baudo abbia fatto, ma su come la sua televisione abbia svolto una funzione pedagogica – non cattedratica, bensì culturale e di costume – dentro e oltre il servizio pubblico.
È una riflessione che interessa gli storici della tv, i sociologi dei media e i citizen-critics: riguarda la formazione della cittadinanza mediale nell’Italia generalista.
Pippo Baudo è stato il recordman di Sanremo (13 conduzioni, anche da direttore artistico): questo è un dato. Capire perché quella leadership abbia inciso su linguaggi, rituali e gusti è la parte interessante.
Quando la Rai accende il segnale (1954), la dimensione educativa è parte del suo mandato implicito.
Il caso-simbolo è Telescuola (dal 25 novembre 1958): un progetto di istruzione a distanza rivolto a territori sprovvisti di scuole secondarie; i ragazzi seguivano le lezioni in “posti di ascolto” con un coordinatore in loco.
È un modello che anticipa, con gli strumenti dell’epoca, una Didattica a Distanza ante litteram.
Nel 1960 arriva Non è mai troppo tardi, il capolavoro di Alberto Manzi che alfabetizza adulti ancora in parte o del tutto analfabeti: nero su bianco la tv come politica pubblica di cittadinanza linguistica.
La bibliografia su Manzi e i materiali Rai (Teche, RaiPlay) documentano l’impatto del programma e l’alleanza Ministero–Rai nella costruzione di una lingua comune italiana.
C’è poi Carosello (dal 1957): il contenitore pubblicitario che, per quantità e qualità di linguaggi, ha funzionato come “specchio e strumento sociale, culturale e linguistico dell’italianità”.
È un caso di edutainment dei consumi: educa stili, tempi, lessico; addestra al racconto seriale, introduce “l’intervallo” come forma mentale.
La letteratura accademica recente – studi in sedi universitarie italiane ed estere – ne conferma il peso sociolinguistico.
Negli anni ’70–’80, con l’irruzione delle reti private, Umberto Eco codifica la transizione dalla paleo-televisione (istituzionale, pedagogica) alla neo-televisione (autoreferenziale, dialogica, orientata al coinvolgimento): il mezzo televisivo “parla di sé” e negozia in diretta un patto comunicativo con il pubblico. Qui l’educazione non scompare: si sposta dai contenuti alla relazione e ai format.
E oggi? La traiettoria “tv & scuola” continua in strutture dedicate come Rai Scuola e nei progetti “La scuola in tivù”, che aggiornano la missione educativa nell’ecosistema digitale, dal lessico per stranieri alle pratiche di media education.
È la prova che la vocazione pedagogica del servizio pubblico non è un reperto museale.
Dentro questa parabola si colloca Pippo Baudo.
La sua carriera – da Settevoci al primato sanremese, da Domenica In a Novecento – incarna il passaggio dall’educazione esplicita a una pedagogia pop: non spiega l’ortografia, ma insegna le regole del gioco televisivo e del suo stare-insieme.
La Treccani registra il neologismo “pippobaudismo” come “il modo in cui Baudo ha interpretato il costume e la società italiana”: una chiave socio-culturale, non solo televisiva.
Con Settevoci, la domenica pomeriggio, Pippo Baudo mette a punto una macchina scenica che spiega il varietà-competizione al pubblico generalista.
La dinamica dell’applausometro, la riconoscibilità delle prove, la “liturgia” delle presenze (emergenti, affermati, star fuori gara) istruiscono lo spettatore alla grammatica della gara, alla misurazione dell’emozione collettiva, al ritmo dell’intrattenimento.
È formazione alla fruizione del messaggio televisivo.
Nelle 13 edizioni del Festival di Sanremo condotte da Pippo Baudo – con sette direzioni artistiche – il conduttore diventa maestro di cerimonie: definisce regole, legittima generi, media conflitti in diretta (l’imprevisto come grammatica).
Sanremo è rito civile laico e “palestra di cittadinanza culturale”: la tv generalista ordina gusti e storie.
L’albo dei vincitori/“scoperte” negli anni di Pippo Baudo è, a sua volta, un atlante di mobilità sociale del talento: Laura Pausini (vittoria “Novità” 1993), Andrea Bocelli (Nuove Proposte 1994), la traiettoria di Giorgia da Sanremo Giovani ’93 al trionfo 1995 tra i Big, fino a Eros Ramazzotti (Nuove Proposte 1984).
La letteratura giornalistica e le fonti enciclopediche convergono: Baudo è un talent-scout che educa, selezionando e presentando il nuovo dentro un canone nazionale-popolare.
Con Novecento (Rai3/Rai1, 2000–2003, poi 2010), Baudo porta la memoria del secolo su piattaforma generalista, miscelando repertori, testimonianze, narrazione.
È divulgazione storica a target ampio, senza rinunciare a una cura “da prime time”.
Anche qui la pedagogia è di formato e sguardo: il passato entra in casa attraverso il racconto condiviso, affidato alla credibilità del cerimoniere.
Il lungo capitolo di Domenica In (di cui Pippo Baudo è stato volto ricorrente) ci consegna un’altra dimensione pedagogica: la piazza settimanale in cui si imparano registri, turn-taking, bon ton e conflitto “temperato” del talk.
È la didattica dell’intrattenimento civico, dove l’aggettivo nazional-popolare – nel suo senso più denso – indica una comunità di riferimento più che una strizzata d’occhio plebiscitaria.
Per un pubblico colto e accademico, parlare di “pedagogia” a proposito di Baudo non è una metafora indulgente.
È un’ipotesi teoricamente fondata se assumiamo almeno quattro piani:
1. Pedagogia dei formati. Settevoci alfabetizza al format competitivo; Sanremo normalizza il mega-evento come rito; Novecento sperimenta la storia pubblica come racconto di massa. Ogni volta, il metodo è esposto, esplicato, reso condivisibile: il pubblico impara a riconoscere segni, soglie, prove.
2. Pedagogia del gusto. Se Carosello ha insegnato una grammatica breve dei consumi, Pippo Baudo ha praticato una curatela del nuovo: ha proposto voci e corpi, ha selezionato linguaggi (dal pop melodico al soul), ha creato le condizioni per cui un’artista “di rottura” potesse diventare gusto condiviso. La bibliografia su Carosello aiuta a vedere la continuità: edutainment ieri, nazional-popolare oggi come spazio di mediazione tra alto e pop.
3. Pedagogia della diretta. La neo-televisione di Umberto Eco enfatizza l’autoreferenzialità e la conversazione con il pubblico. Pippo Baudo ne è traduttore virtuoso: gestisce imprevisti, spiega regole, nomina ciò che accade (telecamere, giurie, tempi), trasformando la diretta in una lezione di trasparenza operativa. È un apprendistato alla cittadinanza mediale: capire come si costruisce l’evento rafforza il senso critico dello spettatore.
4. Pedagogia dell’inclusione simbolica. Il Paese entra in tv e la tv rilegge il Paese. Baudo integra linguaggi, provenienze, generi; riconosce la dimensione plurale dell’italianità (si pensi al portare sul palco lingue, dialetti, corpi, danze). È educazione alla pluralità dentro una cornice unitaria (la liturgia generalista).
Il termine nazional-popolare, spesso usato in modo sbrigativo, torna utile se ricondotto alla sua genealogia critica: non è sinonimo di “populista”, ma di linguaggio condiviso, di common ground simbolico.
La televisione di Pippo Baudo si muove proprio su questo crinale: fa montaggio di Paese, crea una memoria comune (sigle, gag, scandali, standing ovation) e una lingua – tempi, pause, formule – che altri conduttori hanno studiato più che imitato.
La lessicografia e i dizionari registrano questa dimensione, anche sul piano del metalinguaggio (si veda il lemmario Treccani sul “pippobaudismo”).
“Baudo non educava, intratteneva”, qualcuno di sicuro penserà.
È vero che Pippo Baudo non impartiva una didattica disciplinare. Ma la media education non coincide con i contenuti scolastici: riguarda anche l’apprendimento di formati, ruoli e pratiche.
In un sistema ibrido come quello italiano, la civiltà della diretta (capire il frame, riconoscere la manipolazione, distinguere regola e infrazione) è alfabetizzazione.
Il fatto che la Rai mantenga oggi canali e portali di educazione formale e informale rafforza l’idea di un continuum tra tv maestra e tv maestra di sé.
“È solo nazionalpopolare”, qualcuno può obiettare. Sì, e proprio per questo è importante: perché opera sul campo dove si costruisce la comunità immaginata.
La strategia di Pippo Baudo è stata spesso ecumenica: conciliare platee e stakeholder (artistici, politici, industriali) senza rinunciare alla messa a fuoco del nuovo.
La traiettoria di Pausini, Giorgia, Bocelli – dai segmenti “giovani” all’ingresso nel canone – restituisce l’immagine di un curatore più che di un semplice cerimoniere.
“Il merito è dell’industria discografica”, dirà qualcuno. Certo, la filiera discografica decide molto. Ma chi sta sul palco di un mega-evento, come viene presentato, quando viene “spiegato” al Paese, determina parte dell’esito culturale.
La competenza di Pippo Baudo nel racconto di contesto (paratesti, storytelling dei big e dei debutti) è stata – per decenni – una interfaccia pedagogica tra industria e pubblico.
La cronaca ci consegna l’ultima notizia sulla morte di Pippo Baudo, il 17 agosto 2025, con il carico emotivo che sappiamo: la scomparsa, la camera ardente al Teatro delle Vittorie, il cordoglio trasversale.
Tuttavia per gli studiosi la notizia vera è un’altra: Pippo Baudo resta un caso di scuola per capire come il generalismo italiano abbia educato intrattenendo – e spesso incluso attraverso lo spettacolo – generazioni di spettatori.
Dalla lezione del maestro Manzi alla lezione di palcoscenico, c’è continuità di missione pubblica.
La tv che ci ha alfabetizzati ha poi alfabetizzato sé stessa davanti a noi: regole, tempi, conflitti, gusti, memoria.
In questa genealogia, Pippo Baudo non è un’icona soltanto; è un pedagogo pop che ha trasformato la liturgia televisiva in formazione civica dei gusti. E questo, al di là di ogni culto della personalità, è un contributo strutturale alla cultura mediale dell’Italia.
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