Michele Aiello (Verona, 1987), è autore di documentari e formatore di video partecipativo per bambini e adolescenti. Collabora con l’associazione culturale Zalab, il Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli del Teatro di Roma e registi e autori indipendenti. Laureato in Relazioni Internazionali e specializzato in conflitti armati e marginalizzazione delle minoranze, conduce attività di giornalismo free-lance con video-reportage e inchieste. Fra i suoi lavori si ricordano El Cambio – La proposta di Podemos (doc, 2016), Laboratorio Piero Gabrielli (lab, 2016), Winter Balkan Route (reportage, 2016), Tutti in scena (doc, 2015), Cucinema (lab, 2015), Gli esploratori di San Lorenzo (lab, 2015), Quattro volti (lab, 2014). Con il recente Io resto, Michele Aiello è alla sua seconda regia. Il suo sguardo sensibile e attento resta senza invadere, tra gli operatori sanitari e i pazienti ricoverati nel periodo del primo lockdown, nell’ospedale di Brescia. Resta nei luoghi chiusi, nel dolore ma anche nelle aperture dell’empatia e dell’impegno. Un documentario che racconta di persone e non di eroi. 

Aiello, come ha maturato l’idea di fare e raccontare questa esperienza?

Il regista Michele Aiello

«Mi interessavano i racconti dei giornalisti rispetto a quello che stava succedendo negli ospedali, mentre noi eravamo costretti a stare a casa. Sentivo raccontare storie importanti, ma io volevo farlo da un altro punto di vista. Per esempio tra i tanti dati statistici enunciati a un certo punto il numero delle morti risultava qualcosa di sovrumano;  si è cominciato a parlare di eroi o angeli come se chi lavora in ospedale avesse una dote, come se potessero essere anche sacrificati solo perché si trovavano li a reggere l’argine prima che il fiume straripasse. Credo, però, che questo modo di fare informazione allontani le persone da quello che succede nella realtà, fa dimenticare cosa davvero sta succedendo e crea dei tabù. Il rischio è che poi non si ascolti più davvero quello che accade. Io volevo fare un racconto più lento, dando la possibilità di immedesimarsi in un racconto che fosse anche meno violento, senza effetti speciali. Volevo raccontare le persone e non gli eroi. Così mi sono tuffato in questa esperienza, un po’ come avevo fatto per il documentario “Violent Borders”, ma questa volta mi sentivo più consapevole e avevo le idee più chiare su come fare, che stile avere e che regia dare. Non sapevo però cosa avrei davvero trovato». 

Come è riuscito a entrare in ospedale, in un momento così critico?

«Ho cercato e trovato le persone giuste con cui confrontarmi e capire se fare oppure no questo film. Ho contattato i primari dei reparti di malattie infettive perché volevo una persona competente rispetto alla mia presenza in reparto; volevo un dottore, non un dirigente o qualcuno che non fosse direttamente coinvolto. Pur avendo avuto risposte positive da tutti, ho escluso Lodi e Cremona perché in quelle aree c’erano già troppe TV. A Brescia abbiamo avuto il benestare anche dalla direzione sanitaria, grazie anche al primario delle malattie infettive che ha spiegato e sostenuto la nostra presenza ai pazienti. Forse anche perché in quel periodo mediaticamente tutti si erano concentrati su Bergamo, mentre anche Brescia stava soffrendo molto e nessuno o quasi se ne occupava. Poi c’è stata una contrattazione sul tempo, perché loro volevano che rimanessi solo un paio di settimane, maalla fine sono rimasto un mese».

Che cosa hai trovato?

«Sono entrato il 26 marzo, tre settimane dopo l’inizio del lockdown. Il contagio era già arrivato al suo picco e la curva incominciava la sua fase discendente. Ho trovato l’ospedale pieno: 6-700 persone malate di covid. C’era anche il dubbio se ce l’avremmo fatta oppure no. Alcune venivano dimesse dopo un mese, altre venivano ricoverate. Il periodo iniziale di forte e veloce azione si stava esaurendo e si cominciava a respirare già un po’ di riorganizzazione. Quando sono arrivato  ho trovato una situazione più statica  dal punto di vista dell’azione e questo mi ha forzato a cercare le storie per creare l’arco narrativo dentro il documentario».

Prima diceva che all’epoca aveva le idee chiare su come strutturare il documentario… 

«Dal punto di vista tecnico ero sicuramente più consapevole rispetto alle mie precedenti esperienze; ma il mio primo obiettivo era raccontare il personale sanitario anche perché non sapevo come approcciare i pazienti critici, che poi magari non ce l’avrebbero fatta. Poi  girando per i corridoi e osservando, mi sono accorto delle relazioni tra personale e pazienti, questo grande gioco di restare umani nonostante i dispositivi di protezione che impedisce in qualche caso addirittura di riconoscersi, e i pazienti nelle stanze chiuse in isolamento. Proprio questo gioco mi ha permesso di cercare alcuni pazienti che potessero restituire un volto a quanto stava accadendo. Ho, fra gli altri, conosciuto una paziente in particolare, sorella di un medico che lavorava proprio lì. Quindi ho cominciato a considerare anche i parenti dei pazienti di questa malattia sconosciuta. Ricordo poi di un paziente che stava bene e in poco tempo è peggiorato. Ho seguito la dottoressa, molto umana, che lo ha curato con dedizione. Comunque più restavo in ospedale e più mi rendevo conto che focalizzarmi solo sul personale sanitario non sarebbe bastato».

Ma come è arrivato anche ai pazienti?

«È stata proprio una paziente a pescarci con l’amo! Un giorno stavamo girando nel reparto e una paziente dice alle infermiere che erano con noi: “Lo sapete che vogliono intervistarmi?” Ovviamente non era vero, ma noi l’abbiamo presa sul serio e lo abbiamo fatto».

E cosa voleva raccontarvi?

«La sua vita e tutto quello che c’era fuori l’ospedale. Anche un grande desiderio di condividere chi era lei fuori dall’ospedale, cosa che poi ho cercato anche negli altri pazienti. Essere isolati ma trovare la connessione con il mondo esterno, spesso mediata dagli infermieri».

Restare in questo tipo di immagini, non è semplice. Cosa le resta di questa esperienza?

«Io resto sono anche io che ho deciso di andare e di accettare le conseguenze che ancora non conoscevo. C’è un limite etico quando filmi certe situazioni che è molto facile da superare; sai che ne userai solo una minima parte ma intanto sei lì e filmi quella situazione senza poter cambiare le cose che stanno succedendo. Certe situazioni sono state molto forti. Per la prima volta ho visto persone sul punto di morte. Ti trovi a condividere uno spazio con quelle persone. Io sono restato e ho accettato questa conseguenza. Alcune scene le ho viste più volte con persone diverse ma per me sono ancora molto vivide e intense. In quei trenta gironi ho vissuto quella cosa e mi ricordo e so chi è ogni persona che ho incontrato. Se però mi risultava abbastanza chiaro cosa volesse dire Io resto per tutti noi e per i medici e operatori sanitari impegnati nei reparti, mi sfuggiva invece quale dimensione potesse prendere tutto questo per i pazienti. E proprio una di loro me lo ha detto: “io resto, sono una che è restata. Ho lottato per la vita, ho deciso di rimanere, cosa che ha deciso più di una persona che alla fine ce l’ha fatta”. La sensazione che resta del voler rimanere in vita è molto forte. ero talmente immerso in quello che stavo vivendo che non me ne sono reso conto». 

Mi sembra che per lei sia stato uno stare per restituire, in senso trasformativo. Spesso è proprio lì, sul confine tra vita e morte che si sente la voglia di salvare immagini che restino a stratificare, paradossalmente, la  memoria del futuro…

«Questo che dici in effetti lo ritrovo nei ringraziamenti ricevuti dalle famiglie. Per loro è stato un modo di riavvicinarsi a quel pezzo di vita che allora risultava lontano e incomprensibile. Non potevo prevedere però quanto forte sarebbe stato stare dentro quell’esperienza. Poter raccontare anche solo una frazione di quel tempo e di quei luoghi per farli capire meglio a chi li non c’era, è il prezzo che ho pagato con le conseguenze del mio restare».

Ancora un’immagine di Michele Aiello

La sua famiglia come ha vissuto questa esperienza?

«Erano preoccupati ma mi hanno sostenuto e supportato moltissimo».

Ha dedicato l’opera a sua madre Silvia, medico pediatra…

«Nell’ospedale ho cercato la sensibilità di mia madre e mi son fermato dove ci fossero le persone che avevano quel tipo di approccio nel rapporto medico paziente, la dedizione e l’essere attenti e non tralasciare i dettagli, il non mollare la persona perché troppo malandata per non essere salvata». 

Quando potremo vedere Io resto?

«Qui in Italia a settembre. Intanto è presente nelle varie manifestazioni cinematografiche tra cui il Biografilm Festival 2020 dove ha ricevuto il Best Film Award Biografilm Italia e il Visions du Reel 2021. Nel frattempo il 19 giugno, durante la giornata mondiale del rifugiato presso Forte Sofia, verrà proiettato Un giorno la notte, sicuramente diverso da Io resto ma che comunque narra della capacità di reagire anche contro le difficoltà più grandi».

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