Quando sentiamo parlare di vittime di violenza che per anni mantengono legami con i loro aguzzini spesso sorgono le domande: “Perché non se ne è andata/o subito?” oppure “Perché ha denunciato solo dopo anni?” La psicologia del trauma ci insegna che questi interrogativi, per quanto legittimi, partono da una visione lineare e razionale della realtà, che mal si adatta alla natura complessa del trauma psichico. Le vittime di abuso – siano essi fisici, sessuali, psicologici o relazionali – non vivono il trauma come un evento isolato, ma come un campo relazionale denso di ambivalenze, colpe interiorizzate e meccanismi difensivi profondamente radicati. 

Il legame traumatico: una connessione che imprigiona

Uno dei fenomeni più discussi in psicotraumatologia è quello del trauma bonding (legame traumatico). Si tratta di una forma di attaccamento disfunzionale che si crea tra la vittima e l’aggressore, in cui la paura, l’umiliazione e il dolore si intrecciano paradossalmente con il bisogno di protezione e connessione.

In questo tipo di legame, l’aggressore non è solo colui che ferisce, ma anche colui da cui – almeno simbolicamente – si dipende per la sopravvivenza, l’approvazione o l’identità. Questo genera un paradosso psichico: fuggire significa salvare se stessi, ma anche perdere ciò da cui si dipendeva per esistere.

Cosa spinge a restare

Rimanere nel contesto in cui è presente l’aggressore non è sempre indice di passività o cecità, ma può essere il risultato di una complessa dinamica interna:

  • Colpa introiettata: molte vittime sentono di meritare la violenza subita, a causa di una svalutazione costante che ha minato la loro autostima.
  • Speranza di redenzione: si mantiene l’illusione che l’aggressore possa cambiare, che si possa “sistemare tutto”, specialmente se c’è una storia affettiva o familiare di mezzo.
  • Paura della disintegrazione del sé: in alcuni casi, l’identità della vittima si è strutturata attorno a quel rapporto, anche se violento. Lasciare equivale a smarrirsi, perdere sé stessi.
  • Contesto sociale o familiare invalidante: spesso l’ambiente circostante minimizza, giustifica o colpevolizza, rafforzando il silenzio e la sopportazione.

Cosa trattiene dell’andarsene

Allontanarsi, denunciare, rompere il legame può sembrare la via della liberazione, ma apre ferite profonde:

  • Dolore da separazione psichica: l’aggressore è stato, in molti casi, anche un oggetto d’amore, un riferimento emotivo. La separazione comporta un lutto, una frattura identitaria.
  • Attivazione post-traumatica: il distacco può scatenare flashback, sensi di colpa, attacchi di panico o un senso di vuoto devastante. È come aprire una diga.
  • Perdita del senso del tempo psichico: la denuncia può avvenire anni dopo proprio perché il trauma congela il tempo interno. Solo quando la psiche è pronta, può iniziare a ri-narrare ciò che è stato.
Foto da Unsplash di Negar Nikkhah

“Se te ne vai, è perché scappi”: la colpevolizzazione come strumento di controllo

Una delle strategie più subdole adottate dagli aggressori è il rovesciamento della responsabilità: accusare la vittima di essere lei a “non voler affrontare le cose”, di “scappare” invece di impegnarsi, di “non essere capace di restare nei momenti difficili”. Si tratta di un meccanismo manipolatorio ben noto nella clinica del trauma relazionale, spesso mascherato da un linguaggio pseudo-maturo o psicologizzante.

Attraverso frasi come “Io ce la metto tutta, tu invece molli” o “Vedi? Come sempre fuggi dai problemi”, l’aggressore mette in discussione proprio quella parte sana della vittima che tenta di difendersi, di uscire, di interrompere una relazione disfunzionale. Il messaggio implicito è che l’atto di andarsene sia un segno di codardia, irresponsabilità o incapacità di amare.

Questa narrazione, apparentemente razionale, colpisce però in modo diretto le aree più fragili e colpevolizzate della psiche della vittima. Spesso si aggancia a vissuti antichi di inadeguatezza o a un Super-Io severo che punisce il bisogno di autonomia. Così, anche il gesto salvifico del distacco viene investito da dubbi paralizzanti: “E se avesse ragione lei/lui? Se fossi io a non saper affrontare la verità?”

In realtà, ciò che viene accusato come fuga è, molto spesso, un primo atto di differenziazione psichica. Decidere di lasciare una relazione abusante non significa scappare, ma affermare un confine che è stato troppe volte violato. È un gesto di responsabilità verso di sé, non di evitamento del confronto.

Sostenere la vittima in questo passaggio delicatissimo richiede di disinnescare il ricatto morale che l’aggressore ha instillato, spesso per anni, nel suo mondo interno. La verità è che l’abbandono della relazione tossica non è mai un fallimento: è un atto di esistenza, di soggettivazione e, in molti casi, il primo passo verso una narrazione finalmente propria.

La denuncia tardiva: un tempo interno che reclama giustizia

Quando una vittima denuncia l’abuso dopo anni, sta spesso rispondendo a un’esigenza evolutiva profonda. Non è “in ritardo”, ma nel proprio tempo interno ha raggiunto un punto in cui è possibile nominare l’inenarrabile.

È il momento in cui il bisogno di verità prevale sulla paura, in cui si rielabora la narrazione da vittima silenziosa a soggetto capace di dare voce alla propria esperienza. È un processo psichico che va rispettato, non giudicato.

Dal silenzio alla soggettivazione

Restare o andarsene non sono semplici scelte logiche, ma attraversamenti psichici profondi. Ogni storia di abuso porta con sé un tempo unico, un dolore irripetibile e un cammino di guarigione che può essere lungo, tortuoso, ma anche trasformativo.

Dare voce a ciò che è stato, anche dopo anni, è un atto di soggettivazione profonda: non si tratta solo di “denunciare un reato”, ma di riprendersi il diritto di esistere come soggetto intero e non come oggetto del potere altrui.

Foto da Unsplash di Mehran Biabani

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