Esiste un cavallo di nome Marco. È fatto di carta pesta e legno, è alto quattro metri e poggia su una base a cui sono attaccate delle ruote per poterlo trainare. È azzurro, longilineo, fiero, con lo sguardo che va al di là, che guarda lontano.

È nato a Trieste nel 1973 per mano degli operatori e degli ospiti dell’ospedale psichiatrico della medesima città, al tempo diretto da Franco Basaglia. Si, proprio lui che dà il nome ad una legge, la 180/1978, rendendola in questo modo ancora più umana di quello che già è. Si tratta di una legge che ha dato il via ad una rivoluzione che dall’Italia si è poi estesa nel mondo. Una rivoluzione che non si è limitata a cercare di abbattere i muri del pregiudizio sociale e dello stigma che ne segue nei confronti della malattia mentale ma che è andata oltre: ha cercato di fare questo restituendo dignità di persona ai malati che fino a quel momento venivano confinati ed emarginati in luoghi al limite dell’immaginazione: i manicomi. Qui dentro le persone venivano considerate senza speranza di recupero, pericolose socialmente, trattate nel peggiore dei modi.

Un giudizio… sospeso

La 180 è una legge che ha portato alla chiusura dei manicomi e lo ha fatto con il coraggio di mettere al centro del processo di cura l’uomo e i suoi bisogni. “Un individuo malato- diceva Basaglia- ha come prima necessità la cura della malattia ma anche molte altre cose: un rapporto umano con chi lo cura, risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro e di tutto ciò di cui anche noi abbiamo bisogno”.

Così si scardina il concetto riduzionista che vede la malattia mentale solo come una malattia del cervello; la grande, grandissima innovazione di Basaglia sta nel tentativo di riportarla in un terreno di comunità umana, in cui il malato ha gli stessi diritti di ogni altra persona. Si tratta perciò, a tutti gli effetti, di un processo culturale che conduce al riconoscimento del disagio psichico e spinge verso l’accettare “tanto la ragione quanto la follia” che “esiste ed è presente in noi come lo è la ragione”.

Franco Basaglia

Basaglia si è battuto per cambiare la modalità escludente della società che inchioda l’uomo in un’etichetta sterile, in una parola diagnostica che chiude ed isola invece che dischiudere verso il proprio mondo interno e la narrazione di sé, i propri bisogni e diritti. 

Ha “sospeso il giudizio” cercando di dare senso al non apparente senso della sofferenza psichiatrica. Si è aperto verso un nuovo modello di presa in carico: un incontro autentico tra paziente e terapeuta, in cui l’accoglienza, l’ascolto, il sentire l’altro, rappresentano la premessa per una collaborazione attiva.

Un lavorare insieme per il cambiamento, ponendosi in un percorso terapeutico che tenga conto degli aspetti biologici (fisiologici), psichici (emozioni, vissuti e l’esperienza soggettiva) e sociali (relazioni), portando inevitabilmente sulla strada di un’effettiva riabilitazione psichiatrica. Dimostrando così che si può assistere alle persone folli in un altro modo.

Ma che c’entra l’azzurro cavallo?

Qualche anno prima della famosa legge, all’interno della struttura psichiatrica di Trieste, diretta da Basaglia citata in precedenza, era già in atto una rivoluzione: infatti, per esempio, si svolgevano diversi laboratori creativi che per i tempi di allora erano una novità,  finalizzati alla libera e terapeutica espressione artistica e alla condivisione tra ospiti e operatori. Da un po’ di tempo durante questi incontri si discuteva di creare insieme qualcosa che fosse significativo del riconoscimento della dignità personale dei malati.

Fu così che tutti pensarono ad un cavallo che aveva vissuto realmente anni prima proprio in quell’ospedale  e che fu salvato dal macello dagli ospiti dell’epoca. Il suo nome, dato dai pazienti stessi, era Marco. Il suo ruolo era quello di trainare il carretto della lavanderia del manicomio, fino a quando, nel 1959, Marco, divenuto ormai anziano, non riusciva più a reggere tale fatica.

Marco cavallo

Secondo molte persone doveva quindi essere abbattuto, perché non più utile. Ma i pazienti non lo accettarono e riuscirono a giungere a un compromesso con le autorità: l’ospedale, gli operatori e i pazienti si sarebbero presi cura di lui, versando una somma pari a quella corrispondente alla vendita del cavallo.

Fu una prima apertura verso il riconoscimento della loro dignità personale, perché vennero ascoltati nei desideri, bisogni e capacità. E così nacque la scultura di Marco cavallo, azzurra come la gioia di vivere e con la pancia piena di desideri e sogni dei pazienti.

Quando, nel 1978, la legge 180 venne approvata, si decise che questo cavallo dovesse diventarne il simbolo. Si organizzò una  grande festa “fuori”, al di là dei muri dell’ospedale, per le vie della città,  per far conoscere al mondo Marco cavallo e tutto ciò che rappresentava. Ma Marco era troppo grande e non riusciva a superare i cancelli; l’unica possibilità era quella di scardinarli.  Questo gesto divenne una concreta rappresentazione di quanto contenuto nella Legge 180: la libertà e i diritti di tutte le persone con disagio mentale. Un importante punto di partenza, più che di arrivo. 

Una legge che ha fatto scuola, ma…

Ad oggi, nonostante questa legge abbia fatto e faccia scuola in Europa e in molte parti del mondo, ci si scontra ancora con una realtà che fatica a fare i conti con strutture e risorse sanitarie non in grado di far fronte alle esigenze di tutti i malati e dei loro familiari. Se infatti la chiusura dei manicomi significa senz’altro libertà, dignità e nuove opportunità di vita, per molte persone significa ancora abbandono, solitudine, paura e disagio. Questo avviene a causa di un non adeguato impiego di risorse e personale provocato a sua volta dalla difficoltà di comprendere che non esiste salute senza salute mentale.

Marco cavallo esiste ancora, ogni tanto esce per le strade delle città affinché non si  dimentichi l’insegnamento maestro di Basaglia: è possibile cambiare le cose. Abbiamo l’onore e l’onere di portare avanti questa possibilità cercando soluzioni che partano dalla demolizione dei muri del pregiudizio per creare così spazi e modalità adeguate a far fronte alle situazioni di disagio psichico.

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