Cinque sì. È l’auspicio, se non l’imperativo, di ottenere il quorum e rovesciare la narrazione che da trent’anni vede ripetere lo stesso mantra: mano libera alle imprese, lavoratori e diritti non devono intralciare i manovratori. E se incidentalmente lavoratori e immigrati si sovrappongono in molti aspetti, ecco che sfruttare il fenomeno migratorio e trasformare le persone in oggetti elettorali diventa lo sport preferito dell’Italia che lavora, tanto per utilizzare uno dei tanti slogan coniati da Silvio Berlusconi.

Abbiamo intervistato Giuseppe Civati, già deputato nel PD prima, deputato e segretario per Possibile poi, che da tempi non sospetti mette in evidenza non solo nei suoi interventi pubblici, ma anche nei suoi libri (“Voi sapete”, “Stranieri per sempre”) la manipolazione da parte della destra – o delle destre? –  dei dati riguardanti i fenomeni migratori e le norme del mondo del lavoro, con l’intento di sfruttare gli stranieri per ottenere e rafforzare la propria presenza in Parlamento.

Civati, siamo a ridosso della scadenza per il referendum. Qual è il contesto in cui possiamo inquadrare l’azione referendaria.

«Il primo elemento è che l’8 e il 9 giugno potrebbero segnare una piccola data ma dal significato rivoluzionario, naturalmente sperando che tutti vadano a votare e che ci sia una grande vittoria dei cinque sì. Sono trent’anni che quando si parla di immigrazione e di lavoro, se ne parla solo in termini negativi, sottraendo diritti, garanzie, tutele e agitando pericoli al di là dei dati reali e senza alcuna prospettiva.»

Vediamo più in dettaglio questi temi, che comunque sono intrecciati, come ha più volte evidenziato nei suoi libri

«Parto volutamente dal lavoro perché mi dicono che parlo solo di migranti come se chi chiede la cittadinanza fosse poi ancora un migrante. Dagli anni Novanta, ci hanno consegnato l’idea che dovessimo tutti essere più precari, meno retribuiti, più discontinui e che questa fosse l’unica possibilità all’orizzonte, che non si potesse intervenire sulla progressività fiscale e che si potesse intervenire solo verso il basso della scala sociale. Negli stessi anni, per una stagione politica che speriamo finisca il prossimo 8/9 giugno, l’immigrazione è stata vista come un’emergenza, poi un pericolo, poi un elemento legato solo alla sicurezza, poi un fatto che si ingigantiva nell’inseguimento di numeri sempre più grandi con l’effetto di esasperare paure remote o locali. Ci sono stati momenti di tensione, questo nessuno lo nega, ma sono stati fatti diventare la regola».

Quindi ora abbiamo una grande opportunità di cambiare le cose

«Nel caso del lavoro, abbiamo l’occasione di rimettere a posto il Jobs Act, che rappresenta l’epilogo di quella stagione. Peraltro, un puntiglio mi è rimasto: fui tra i pochissimi a votare contro il testo di Renzi, pur stando in maggioranza, testo che spingeva all’ultima conseguenza tutta una serie di scelte fatte negli anni precedenti. Ma possiamo finalmente dire che se vieni licenziato in modo illegittimo è giusto che tu possa far valere i tuoi diritti, oppure se avviene un incidente e lavori in subappalto, è giusto che anche la ditta appaltante sia chiamata a rispondere. E ancora, sulla precarietà del rapporto di lavoro, come datore devi dare la motivazione, una causale, al motivo per cui il contratto di lavoro non è a tempo indeterminato. Tutta una serie di tutele che a me sembrano di minima civiltà. E te lo dice uno che, tra l’altro, adesso ha una srl (Civati è titolare di una casa editrice, People, ndr)».

Quindi è passato dall’altra parte!

«Sì, dalla parte dei cattivi secondo la retorica imperante. Una vittoria del sì sarebbe clamorosa certo, ma è un piccolo passo per cominciare a dire per esempio che i salari sono precipitati, sono cresciuti solo i precari, chi c’era già allora sapeva che sarebbe finita in questo modo. Sull’immigrazione, si tratta di rispondere all’accorato appello di Matteo Salvini che ha sempre detto che quelli belli e bravi sono i benvenuti e noi, infatti, di questo stiamo parlando. Poi tutti sappiamo chi è Matteo Salvini, però stiamo alla sua provocazione.»

Per un attimo ho sudato freddo!

«Sappiamo tutti che la sua strategia è etichettare le persone, ma tutte quelle persone che sono venute in Italia e hanno avuto l’occasione di dimostrare di essere brave persone lo hanno fatto, si sono regolarizzate prima con la carta di soggiorno, hanno iniziato a lavorare, hanno trovato una residenza che hanno confermato per tanti anni e presentano una richiesta per ottenere la cittadinanza – perché non è automatico ottenerla dopo i dieci anni dimostrabili di permanenza ininterrotta ndr – a cui lo Stato risponde in circa tre anni.»

Nei suoi libri parla già di seconde se non terze generazioni e fa l’esempio di chi sbarcò dall’Albania e aveva 30 anni nel 1990. E da allora sono passati 35 anni, ormai

«Infatti, è il tempo di una generazione! Dieci anni per maturare i requisiti e tre per fare la richiesta è un’enormità di tempo. Per non tacere poi della questione dei minori, bambini che sono nati qui e non conoscono il loro Paese e non sono considerati italiani. Questi bambini sono diventati grandi mentre noi discutevamo, quelli dello jus soli sono diventati maggiorenni, quelli di adesso no perché le regole per diventare cittadini italiani sono assurde e al compimento dei 18 anni hanno un anno di tempo per farlo. Il referendum ripetiamo è una piccola norma, non è creativo ma solo abrogativo».

I testi non sono sempre facili da comprendere, come ha sottolineato il comico Luca Bizzarri…

«Mi spiace che Luca Bizzarri scherzi sul fatto che i referendum hanno testi complicati, però esistono la politica e il giornalismo per spiegarli. Le iniziative referendarie intervengono sui commi, sulle virgole, non capisco cosa ci sia da ironizzare solo per alimentare un’idea antipolitica e antistituzionale che negli ultimi trent’anni non ci sta facendo benissimo.»

Il tema dell’antipolitica andrebbe analizzato a parte. Abbiamo comunque perso il senso della complessità delle cose.

«Per chiudere sul tema, ormai si tratta di dare una risposta alle seconde se non le terze generazioni, quelli che sono arrivati nel 1990 a trent’anni adesso ne hanno più di 60 e possono essere tranquillamente dei nonni, inaugurando la tradizione dei nuovi italiani».

Una cosa su cui non riflettiamo è che il diritto di cittadinanza ha ripercussioni molto pratiche. Pensiamo anche solo all’esigenza di attivare una linea telefonica, per cui avere l’appuntamento per il permesso di soggiorno viene schedulato anche oltre i 12 mesi, dal momento in cui viene richiesta la connettività

«L’esempio è molto bello e molto vero, ti ringrazio, e mi dà lo spunto per un appello: pensiamo, in un Paese che è diventato ipersensibile a scadenze, domande, call center, cosa accadrebbe se ci si trovasse in mezzo un italiano che lo è già. Cioè, se un italiano che è già cittadino dovesse stare sul Lungadige (Galtarossa, davanti alla Questura ndr) in coda – e qui faccio un appello al Comune, alla Questura, alla Curia: ma possiamo fare in modo che la coda di chi si ferma davanti alla questura perché è in attesa di questi documenti, la si faccia all’interno del cortile? – Pensa, dicevo, se fossero gli italiani a dover stare sul marciapiede dalla mattina, sotto il sole oppure sotto la pioggia d’inverno. Perché poi? Per far vedere queste persone a tutti quelli che passano in auto?  A me sembra una cosa umiliante».

Si tratta di un argomento che va a toccare letteralmente ogni aspetto della vita

«Questo riguarda un fatto costituzionale, non stiamo parlando di zona Champions per dire. Stiamo parlando di qualcosa che è fondamentale per la nostra vita associata, per il Paese repubblicano che ha una Costituzione che all’articolo 3 comma 2 – per rispondere a Bizzarri – parla di cittadini e lavoratori, quasi fossero sinonimi. E questi sono lavoratori! Non che quelli che non sono lavoratori non siano cittadini e quindi meno importanti o rilevanti, però la nostra Carta fondamentale invita a riconoscere la cittadinanza attraverso il lavoro. Questo è il punto».

Se guardiamo ai temi del lavoro, vediamo che lo sguardo è sempre liberista, come un sogno americano in salsa spaghetti, e anche l’istruzione ha perso il ruolo di ascensore sociale. Anche la retorica della gavetta, della voglia di fare e per contro della scarsa attitudine della Gen Z alla disciplina a cui noi siamo abituati, sembra non fare presa sui giovani ma non mi sembra che in Italia qualcuno abbia provato a difendere una posizione diversa da quella degli ultimi trent’anni.

Foto da Unsplash di Darren Wanliss

«Sono d’accordo sull’introduzione, non sulla conclusione. Leggevo su un social una frase attribuita a Steinbeck – non so se sia davvero sua – che dice che gli americani non ce l’hanno con i miliardari perché pensano di essere in attesa di diventarlo. Possiamo dire che è andata così, ci siamo inventati con un grande filtro che è stato il berlusconismo e che qualcuno rimpiange anche se non è ben chiaro cosa rimpianga nello specifico, un’idea che è iniziata molto prima della discesa in campo e che prevedeva che tutto diventasse piccolo, autonomo ed individuale, dimostrando la complessità di una sfida a mani nude con il mondo intero.»

«Nel gergo anglosassone questa si chiamerebbe politica pro-business, nel senso che dovresti sostenere chi fa impresa e solo molto in subordine tutto il resto. Forse si intendono l’impresa e la famiglia in un modo un po’ selettivo, perché se poi all’interno della coppia si divorzia non è che tutti i problemi che ne derivano non siano rilevanti. L’atteggiamento di fissare un dato sociale come se fosse irriformabile e non modificabile, come un paesaggio naturale, è uno sport che la destra fa per natura, basta vedere le risposte che la Meloni ha dato sul salario minimo, ma anche l’idea della flat tax è proprio agli antipodi del nostro modo di vedere, però rileviamo che ci è cascato anche il centro sinistra, tanto che stiamo facendo un referendum su una legge, su una serie di cose volute dal centro sinistra.»

Penso di aver fatto un errore di valutazione nel ritenere questi referendum poco attrattivi ai giovani, spesso denigrati per il lor atteggiamento verso il lavoro, molto diverso da quello della nostra generazione.

«Io penso che questo sia il referendum delle giovani e dei giovani. Noi percepiamo la cittadinanza in un modo molto più faticoso rispetto ai nati degli ultimi 20/30 anni. Ho avuto modo di conoscere ragazzi di 12/13 anni in questi anni che rispetto a noi cresciuti in un’Italia bianca, hanno una percezione della cittadinanza del tutto diversa. Oggettivamente capisco – non giustifico ma capisco – che per noi gli anni Novanta siano stati molto forti, che nel 1992 la legge sia stata cambiata per reagire ad un fenomeno nuovo, le navi dall’Albania, Berlusconi che si commuove sul molo di Brindisi, etc. I giovani questo tipo di percezione non ce l’hanno e anzi fanno fatica a distinguersi sul punto.

Sul tema del lavoro, il passaggio è più difficile da capire, i giovani reagiscono così perché le condizioni di lavoro sono terribili. Prima scherzavo sul mio ruolo di imprenditore, ma mi ritrovo a sindacalizzare chi lavora con me, perché abituati agli stage, all’ingresso nel mondo del lavoro a due lire, a retribuzioni orarie indecenti, a un bel po’ di nero che è tornato di moda un po’ dappertutto, sono disposti a lavorare praticamente gratis. Mio padre quando ero piccolo mi diceva che è lavoro tutto quello che viene pagato, quello che non viene pagato non lo è… Forse era un modo un po’ brutale per dirmi che stavo perdendo tempo (Giuseppe Civati è dottore di ricerca in Filosofia ndr) però era vero».

Dobbiamo decidere se consegnare a questi ragazzi un’Italia che ha preso questa deriva tanti anni fa e non si riprende più, oppure se vogliamo per loro un Paese che conosce un salario minimo a prescindere dalla fatica che fa, perché il grande significato di sinistra del salario minimo – che in realtà non è poi una norma così di sinistra – è di essere il punto di partenza. Poi si contratta, si discute, ma il primo passo è concordare che un’ora lavorata vale 10 euro. Si tratta di creare le condi2ioni per una migliore convivenza no? Sul tema della cittadinanza è più immediato, regole chiare e diritti e doveri per tutti no? In ambito lavoro, penso che prima di tutto l’impresa si debba dotare di personale più qualificato, più resistente perché più riconosciuta e che possa spendere per vivere».

Venendo al tema del voto nel lato PD, cosa pensi del fatto che ci siano alcuni temi su cui è stato data libertà di scelta rispetto, ad esempio, al tema della cittadinanza dove il sì è tassativo

«In questo caso abbiamo anche un errore politico gigantesco. Posso capire che Ren2i voti no, o lo facciano quelli della sua cerchia. Ma sull’affluenza e sull’andare a votare per far passare il sì, questa è l’occasione per portare a casa la prima vera sconfitta della destra da un bel po’ di anni a questa parte.

Io investirei su questo, perché è inutile parlare di campo largo se poi non ci capisce dove si voglia arrivare. Ecco, in questo caso si aprirebbe una stagione nuova per i lavoratori, avrebbe subito effetti tangibili sulla vita delle persone e per gli stranieri si aprirebbe finalmente una stagione due, per costruire una società della convivenza del terzo millennio».

Riprendo una frase di Bersani che a suo tempo si dichiarò stupito del fatto che la destra continui ad avversare il salario minimo, ma ha istituito l’equo compenso che è la stessa cosa concettualmente

«Concordo e aggiungo, dato che a Bersani voglio bene, che quando sostenevo il salario minimo e lui era al governo nel Conte2, abbiamo insistito per introdurlo ma dato che al governo c’erano tutti e quindi è andata come è andata, che il salario minimo è meglio sostenerlo quando si è al governo, non all’opposizione, come metodo. Dopodiché, ha ragione Bersani, il punto è: se io guadagno dieci, perché sono tassato in modo completamente diverso se sono un’impresa se sono artigiano, impresa, b&b, proprietario di case etc. Noi siamo il Paese delle diseguaglianze tra chi ha molto e chi ha niente, la dico semplice. C’è il sottotesto dell’ipercapitalismo di cui non parliamo oggi, per cui il dipendente è sindacalizzato e non vuole lavorare, come se parlassimo di altri e non di noi stessi. E’ un problema del discorso da bar che supera la realtà quotidiana e non si tratta solo di un problema italiano. La qualità della vita non può prescindere dall’aspetto economico, perché come diceva Pertini la libertà è bellissima ma se non c’è giustizia sociale è un bellissimo trucco».

Verissimo. Tra l’altro mi dai l’assist per far notare come ad esempio in Spagna dal lato licenziamenti la gestione è più semplice rispetto all’Italia dove è sempre sottinteso il conflitto tra impresa e dipendente.

«Il tema della politica dovrebbe essere quello di elevare i conflitti, forse il tema è il deficit politico generale, per cui sembra che le cose si debbano risolvere da sole. Poi, è importante notare come viviamo l’impresa, negli ultimi anni si è accentuato un fattore di disparità tra chi dà lavoro e chi lo fa; si è diffusa sempre più una retorica della vittima. Chi ha tre case paga troppa IMU, poi ci mette dentro ventisette turisti e si offende se viene proposto di tassarlo come un’impresa. Lo stesso vale per chi ha dei profitti sfruttando i propri talenti. La politica non si fa per i campioni, quelli ce la fanno da soli, si fa per le persone medie, normali, che devono sbarcare il lunario facendo cose che magari non sono l’invenzione del secolo ma che devono avere anche un contesto di concorrenza. Ad esempio, nell’editoria il problema non sono le tasse, ma la mancanza di mercato. Ma se io pago molte tasse significa che sto guadagnando no? Poi sappiamo tutti che le imprese hanno molti sistemi eleganti per abbassare il carico fiscale. Abbiamo aiutato tantissimo le partite IVA, ma non capisco perché un lavoratore dipendente paga tutto quello che deve e rispettare tutte le scadenze mentre la partita IVA vede alzarsi il massimale. Dobbiamo sempre tenere a mente il contesto in cui ci troviamo e parliamo».

Quando parliamo di cittadini e loro diritti, penso che in realtà quello che tutti chiediamo sia di vivere in modo dignitoso considerando normali certe necessità, come avere una casa, poter studiare, poter usufruire di servizi

«Anche il fatto di poter scegliere chi votare, oppure dare ai propri figli l’occasione di non essere trattati come cittadini di serie B. Chi è venuto in Italia, h scelto di venire qui, di imparare una lingua. C’è anche un tema del diritto visto come pezzettini, un diritto per noi che siamo nati qui e uno per loro. Ma guarda caso abbiamo due storie parallele, lavoro e immigrazione, perché qualcuno ha pensato che un immigrato potesse essere pagato di meno rispetto ad un italiano, magari in condizioni molto peggiori. Anche qui, se avesse prevalso la legge, contratti regolari, ispettori del lavoro, concorrenza leale, avremmo avuto altre opportunità. Il Veneto rappresenta uno degli esempi più eclatanti di integrazione, e siamo in una delle regioni più a destra, votiamo Vannacci e facciamo l’integrazione».

Pensiamo anche alla composizione delle classi nelle scuole oggi, dove l’integrazione è evidentissima. E mi viene in mente ciò che mi disse durante un’intervista l’imam, e cioè “meno integrazione e più interazione”

«Sono d’accordissimo».

Questo feticcio dell’integrazione, quando parliamo di cittadini italiani, a chi dovremmo pensare?

«La politica si deve occupare delle persone normali. Magari non potrò diventare un campione a pallavolo, ma potrei diventare un chirurgo, un generale (risate). Abbiamo avuto partigiani neri, dovremmo far leggere a questo generale qualche libro. Perché un giovane che viene dalla Nigeria non può diventare un esperto di letteratura italiana? Come se la cultura fosse in qualche modo legata alla genetica. Poi cadiamo sugli stereotipi per cui la badante è moldava, in cucina troviamo il nero e così via. E succede che a giovani che parlano benissimo in dialetto veneto e italiano si chieda “ma da dove vieni davvero?” Dobbiamo smetterla con questo atteggiamento da vecchietti sfigati (risate).»

Foto da Unsplash di Rob Curran

Chiudiamo con il tema del calo demografico. È un trend globale, eppure parliamo di calo delle nascite in Italia, come se gli stranieri non facessero figli…

«Serve un cambio di mentalità e conteggiare tutti i figli che nascono in Italia, dato che ci siamo abituati, a causa del nostro modello di sviluppo, ad avere un fratello solo anziché dieci. Che poi, quelli che nasceranno nel 2030 saranno ancora stranieri? In tema di convivenza, serve una scelta che abolisca le tensioni tra le comunità, nel senso che le comunità guarda caso più ricche sono le meno propense ad integrarsi con le altre. Forse è meglio fare in modo che tutti si sentano portatori della nostra cultura evitando facili assimilazionismi. Dobbiamo tenere a mente di essere cittadini europei per creare una società della convivenza che superi le etichette. Se invece ci chiudiamo nella nostra nazione, nella nostra tribù, non andiamo da nessuna parte.»   

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